Infinite sono le cattiverie che uomini anche grandi hanno prodotto nel tempo ai danni dello sport. Karl Kraus, penna austriaca al vetriolo, già nel 1909 scriveva che «lo sport è figlio della democrazia ma contribuisce all'instupidimento della famiglia».
George Orwell, l'inglese che inventò la «Fattoria degli animali», pensava che «se praticato seriamente, lo sport non ha nulla a che fare con il fair play: è come la guerra, solo senza i fucili». Thomas Bernhard (scrittore anche lui, e candidato al Nobel) scandiva invece che «è sempre stata attribuita allo sport, in ogni epoca e da ogni governo, un'importanza grandissima per la buona ragione che lo sport rimbecillisce la masse». E Neil Armstrong, uomo d'indubitabile audacia visto che fu il primo astronauta a posare il piede sulla Luna, chiosava: «Ogni essere umano ha un numero finito di battiti cardiaci. Non intendo sciuparne neanche uno per fare dello sport».
Con i fuochi e le danze e le musiche della cerimonia di Londra ancora nella retina e i primi trionfi azzurri, è facile scacciare gli scettici come mosche impazzite. Ma è più divertente chiedersi: perché si sbagliano? Perché tante geremiadi vanno a vuoto? Perché lo sport non imprigiona le masse ma invece le libera, tanto che questa trentesima Olimpiade sarà ricordata come la prima in cui nessuno dei 204 Paesi partecipanti avrà una delegazione solo maschile?
Perché, a proposito di democrazia, ai Giochi Assad e Lukashenko non possono andare? Perché, insomma, lo sport vince sempre, comunque vada a finire in pista o negli stadi? La risposta c'è. Ma per centrarla a perfezione servivano due grandi, anzi, «i più grandi». William Shakespeare, in quella «Tempesta» che l'attore-regista Kenneth Branagh ha evocato durante la cerimonia di ieri sera, spiegava con tocchi delicati che «noi siamo fatti della stessa materia dei sogni e da un sogno è coronata la nostra breve vita».
Era il 1611, anno della prima rappresentazione. Tre secoli e mezzo dopo gli avrebbe dato man forte (è il caso di dirlo) Muhammad Alì che, leggero come una farfalla e pungente come un'ape, aggiungeva: «I campioni non si fanno nelle palestre. I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione».
Ecco perché gli scettici sbagliano sempre, a proposito dello sport. Perché nello sport c'è tantissima vita. Di quella vita di cui loro scorgono il lato negativo (il dominio, l'aggressività, l'intruppamento, la sottomissione, la guerra), lo sport esalta invece il lato positivo: la voglia di migliorare, la resistenza, lo spirito di sacrificio, il gioco di squadra, l'equilibrio, la capacità di rialzarsi dopo essere caduti. Jean Giraudoux, commediografo francese del primo Novecento, disse una volta che «lo sport è un atto eroico fatto senza scopo».
È un sogno, appunto. Un piccolo poema epico in mondovisione, lungo 9 secondi o tre ore, che i vari Bolt e Phelps e Schwazer interpretano per noi. Loro agiscono, i personaggi siamo noi. Ecco perché nei prossimi giorni saremo tutti, in un modo o nell'altro, avendone coscienza o no, con l'animo a Londra. Non perché massa ma, proprio al contrario, perché miliardi di individui, ognuno impegnato a scoprire l'impresa prediletta e, attraverso quella, riscoprirsi per un attimo capace di sognare, di immaginarsi campione almeno di se stesso. Non bisogna credere alla retorica dell'antiretorica: l'Olimpiade sarà un balsamo, soprattutto in tempi di crisi nera e di poca speranza. Chi non lo capisce non sa sognare. E come dice una bellissima pubblicità: nessuno potrà vincere la coppa se qualcuno prima non l'avrà sognata. Nemmeno in economia.
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