Raccontare una tragedia è sempre difficile e spinoso: mette il cronista in una posizione di dolorosa inefficacia. Egli vorrebbe spiegare quanto strazio lasciano fatti del genere ma non può, non fino in fondo. Quando poi i fatti si ripetono, come abbiamo visto in questi giorni, secondo un meccanismo mortale quasi identico, allora chi racconta avverte un'altra urgenza: quella di dare un contributo perché, se possibile, disastri del genere non accadano di nuovo.
Naturalmente, è pura utopia. Che cosa può fare, di concreto, un cronista? Stendere un accorato appello alla prudenza? Certo. Sindacare la potenza delle moto in commercio? Anche. Contestare ai responsabili la pessima o inesistente manutenzione delle strade? Sicuro.
Ma, per quanto doveroso, tutto ciò servirà a qualcosa? Potrà salvare la vita di un singolo motociclista o automobilista? È legittimo dubitarne.
Mettiamo piuttosto che il cronista - ovvero chi scrive questo pezzo - abbia un'esperienza personale da raccontare. L'esperienza di quando, pur senza andar forte come Valentino Rossi e senza "piegare" come Casey Stoner, e senza aver la sensazione di andarsene in giro correndo rischi supremi, si ritrovò, un pomeriggio, di colpo steso sull'asfalto a guardare con stupore una distesa di nuvole corrugate. Deciso a rettificare la sua posizione, si alzò di buona lena, ma solo per scoprire che una delle gambe, la destra, non era più disposta a sorreggerlo. Non potendo fare altro, precipitò allora a terra come se il suo scheletro si stesse smontando pezzo per pezzo e le giunture avessero deciso, spinte da chissà quale improvvisa ribellione, di separarsi.
All'ospedale venne informato che parte del suo bacino era andata in frantumi e pertanto non era più in grado di offrire sostegno al femore e che il femore suddetto, di conseguenza, non poteva più tenerlo in piedi e garantirgli il minimo sindacale, ossia l'abilità di camminare. Per rimettere insieme il puzzle osseo, spiegarono, ci sarebbe voluta un'operazione chirurgica e qualche mese di riabilitazione.
In tutto questo, nell'attesa su un lettino davanti alla stanza dove i medici effettuarono la "riduzione" della frattura (ovvero l'allineamento manuale delle ossa nella posizione più prossima a quella originale), nel ricovero in ospedale, nei momenti che precedettero l'ingresso in sala operatoria, in ogni piccola e grande sensazione sgradevole o dolorosa, e perfino nel soffuso scoramento che coglie, specie la notte, chi si trova un poco diminuito da se stesso, egli poté comunque apprezzare, sempre, quanto fosse fortunato a esser lì, ad annusare il disinfettante, a far pipì attraverso un tubo, a vegliare mentre un dolore sordo gli pulsava nelle ossa e a chiedersi quando mai le cose avrebbero incominciato ad andare un po' meglio perché, è facile comprenderlo, l'alternativa era niente del tutto. E quando si dice niente, si dice niente che appartenga a questa vita.
La stessa considerazione gli tornò utile quando, nei mesi successivi, salire qualche gradino sembrava un'impresa degna di un trionfo olimpico e, la sera, i muscoli infiammati dolevano in barba a qualunque analgesico. Gli servì anche tenere bene in mente come, considerata in proporzione ad altre lesioni di cui era stato testimone in ospedale, la sua era poco più di una sbucciatura. In fondo, con un poco di pazienza tutto si sarebbe risolto.
Dopo nove mesi di pazienza - e un'altra operazione - in effetti tutto incominciò a risolversi. Dalla sedia a rotelle egli passò a due stampelle, poi a una sola e infine a nessuna. Poco a poco i dettagli della disavventura presero a stingersi nei colori tenui di un quadro a pastello. Ma un paio di segni restarono, indelebili: la sensazione spettrale di quell'alternativa alla vita passata, per un momento, così vicina da sembrare possibile e la convinzione - la certezza, anzi - che in strada rallentare conviene. Sempre.
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