Sono passati tre quarti di secolo, si sono succedute tre generazioni di italiani, il nostro Paese da agricolo è diventato prima industriale e poi post-industriale, ma la sinistra nostrana è ancora alle prese con lo stesso immarcescibile problema: come diventare forza maggioritaria in grado di guidare una maggioranza di governo.
Fu nel 1944 che il Migliore, Palmiro Togliatti, avendo ben presente che il destino dell’allora Pci era di essere comunista in un Paese capitalista, mandò in soffitta il progetto di dare una spallata alla società borghese.
Iniziò allora la lunga marcia del principale partito di sinistra che avrebbe dovuto portarlo alla guida del Paese. I punti fermi irrinunciabili della strategia sono sempre stati due: non avere nemici a sinistra, coinvolgere i cattolici in quanto realtà dominante nel Paese.
Il partito post-comunista ha continuato ad affidarsi a leadership dell’ex campo avverso - vuoi il «cattolico adulto» ed ex Dc Prodi, vuoi l’ex radicale apprezzato dalla Curia romana Rutelli - per affrontare con buone chances di vittoria la competizione elettorale. Con la nascita del Pd e il conseguente accorpamento di diessini e margheritini in una nuova formazione, complice anche il franamento del campo avversario - il Pdl -, s’è aperta finalmente per un uomo doc della sinistra, Bersani, la concreta opportunità di entrare dal portone centrale di Palazzo Chigi. Restano da rispettare le due condizioni originarie: "pas des ennemis à gauche" e un accordo con i cattolici. Lo esigono sia la legge dei numeri che l’opportunità di agganciare l’indefinito ma strategico «mondo dei moderati». E qui il gioco si fa di nuovo complicato.
Il campo della sinistra non solo s’è fatto più frastagliato di un tempo ma s’è reso anche più rissoso. Bersani ha tentato prima di assicurarsi l’appoggio di tutto ciò che si muove alla sua sinistra, poi ha dovuto ripiegare sull’accordo col solo Vendola, aprendo così un fronte di inimicizia con il poco malleabile Di Pietro. E Casini? Non potendo schierare nella stessa formazione diavolo e acqua santa, Bersani ha rinviato al dopo voto una possibile alleanza di governo. Per tenersi poi le mani libere sul fronte delle alleanze, sta cercando di guadagnare tempo lasciando indeterminato il programma: il vero terreno di gioco su cui Europa e mercati attendono alla prova l’Italia del dopo-Monti.
Sfida improba per uno schieramento che vuole unire chi (l’Udc) fa dell’agenda Monti il proprio vademecum e chi (il Sel) vede il liberismo e il monetarismo come il fumo negli occhi. Che questo sia il vero terreno minato, su cui peraltro sono cadute tutte le precedenti coalizioni di centro-sinistra, lo dimostra il fatto che le due uniche proposte finora definite da Bersani, fuori dalla nebbia delle narrazioni e affabulazioni care a Vendola, riguardano temi scottanti come il matrimonio (unioni civili dei gay) e il patrimonio (tassazione delle ricchezze) che non spianano certo la strada sulla via di un’alleanza con i cattolici moderati dell’Udc.
Roberto Chiarini