Mancano pochi mesi alla sua scadenza naturale e la prospettiva più realistica è che termini non solo con un nulla di fatto sul fronte delle riforme, ma addirittura con un decreto di fallimento insieme della politica, dei partiti e della stessa Seconda Repubblica su cui pure si erano puntate grandi speranze di risorgimento democratico dopo lo scandalo di Tangentopoli. Le forze politiche possono invocare come attenuante la gravissima crisi finanziaria che ha reso tutto maledettamente più difficile, ma nessuna di esse può chiamarsi fuori dalla responsabilità di aver prima procurato il disastro dei conti pubblici e di non aver poi provveduto al loro risanamento negli anni delle vacche grasse. Il passaggio, da ultimo, del testimone ad un governo dei tecnici è stato sì - va riconosciuto - un gesto apprezzabile di servizio al Paese, ma rappresenta anche una loro plateale ammissione dell'insufficienza ad assolvere ai compiti che spettano per eccellenza alla politica.
Giunti sull'orlo del baratro, i partiti hanno a disposizione un solo gesto che possa, non certo procurare una loro impossibile piena riabilitazione, ma almeno evitare una loro irrimediabile bocciatura. Parliamo di una riforma elettorale che riattivi, quanto meno, un canale di comunicazione fra casta e società, fra eletti ed elettori. Non si capisce se la perdurante inconcludenza dei maggiori partiti al proposito sia da addebitare ad una sorta di cupio dissolvi, ossia a quel desiderio di morte che si impadronisce, paralizzandolo, di chi vede spalancarsi davanti a sé l'irreparabile o viceversa al rischiosissimo gioco del cerino, per cui ciascuno dei contendenti cerca di lasciare nelle mani dell'avversario il fiammifero acceso.
Sino ad oggi a nulla sono serviti nemmeno i ripetuti richiami di Napolitano a non perdere altro tempo prima di seppellire l'impresentabile Porcellum, ma c'è da sperare che a settembre un soprassalto, più che di responsabilità, di un elementare spirito di sopravvivenza costringa i partiti a concordare una riforma accettabile. Ammesso e non concesso che si arrivi in extremis ad approvare un nuovo meccanismo elettorale, non c'è da illudersi su una riforma epocale che sistemi in modo stabile il controverso meccanismo di attribuzione della delega parlamentare. Manca alle forze politiche una cultura istituzionale matura che permetta loro di offrire al paese un progetto di Stato coerente e ben meditato. La loro volubilità in materia è assoluta. Sono passati, ad esempio, dal sostegno incondizionato al maggioritario alla riproposizione del proporzionale, per vent'anni bollato come il padre di tutti i mali del Paese, senza colpo ferire, senza cioè sentire nemmeno l'obbligo di spiegarci una siffatta inversione ad U. Il risultato più probabile è che dalla montagna di buoni propositi esca un topolino di riforma elettorale.
Luigi Foschi
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