La prima riguarda il riconoscimento di una sua totale imputabilità, di una piena capacità di intendere e volere al momento di far fuoco contro un gruppo di giovani innocenti e ucciderne settantasette.
La corte che l'ha giudicato, ha parlato nel suo verdetto di un gesto terroristico, mentre lui, l'assassino, ascoltava sorridendo.
Sia chiaro, Breivik è un uomo malato, preda di un'interpretazione paranoide del mondo; convinto di avere i titoli e la statura morale per valutare ciò che è giusto e ciò che non lo è, si è arrogato il diritto onnipotente di sterminare.
Ma altrettanto chiaro è che Breivik sia un uomo malvagio, a cui il disturbo psicologico di cui certo soffre non ha intaccato o indebolito la possibilità di scegliere.
In casi come questi, drammaticamente al confine, si cerca di valutare sempre gli spazi di libertà lasciati dall'interpretazione distorta della realtà. Se anche Breivik non possiede coscienza morale, e la natura non gli ha concesso quelle doti minime di empatia che portano a considerare e rispettare gli altri, nondimeno era in grado di comprendere che il suo comportamento avrebbe infranto la legge.
E la sua meticolosa preparazione della strage non permette dubbi sulla sua capacità di volere.
La seconda considerazione riguarda l'entità della pena: ventun anni per settantasette omicidi sembrano veramente pochi. Il fatto è che non è solo la legislazione scandinava a dettare tempi definiti di carcerazione. Penso alla vicina Svizzera, e a un caso non lontano che ha suscitato scalpore, costringendo la confederazione a rivedere il proprio ordinamento: Michel Peiry, oggi sessantatreenne, è più noto alle cronache come il "sadico di Romont"; tra il 1981 e il 1987, si è reso responsabile dell'omicidio di quattro giovani, anche se il dubbio è che siano state almeno dieci, tra Svizzera, Francia, Italia, Croazia e Stati Uniti. Lo hanno arrestato nel 1987, ma sarebbe potuto uscire quindici anni dopo, se non si fosse scatenato un dibattito politico che ha portato alla possibilità dell'internamento a vita per gli autori di crimini tanto efferati.
In ogni caso, non stupiamoci della condanna "relativamente modesta" inflitta ad Anders Breivik. Innanzitutto perché in Norvegia la certezza della pena è una regola, e non un optional.
E poi perché nel dispositivo di sentenza sta già scritto che se il detenuto, scontata la sentenza, sarà ancora un soggetto pericoloso, per lui le porte del carcere resteranno ermeticamente chiuse.
Azzardo un'ipotesi, peraltro fondata sulla mia esperienza clinica: Breivik ha oggi trentaquattro anni; la sua pericolosa patologia paranoide non è cosa di recente insorgenza, e ha la tendenza a cronicizzarsi, soprattutto se gestita in un penitenziario di massima sicurezza.
Dubito che tra ventun anni la sua pericolosità sociale sarà diminuita.
Forse un giorno avremo cure efficaci per soggetti come lui; magari le neuroscienze ci diranno che è tutto un problema di strutture cerebrali, o la genetica sosterrà la tesi di un cromosoma difettoso.
Oggi è il caso di difenderci, confinando un assassino in un luogo sicuro e lontano dal resto di noi, uomini e donne tutt'altro che perfetti, ma ben lontani dall'assumere le sembianze di un dio furente. O forse meglio sarebbe dire, di un demone vendicatore.
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