L'impressione, guardando la scena un po' a distanza, come è concesso a noi spettatori, è che ci sia un teatrino a due nel quale, da una parte, mai e poi mai gli atleti riconoscono le loro responsabilità - lo stesso Armstrong, ieri, ha annunciato la sua rinuncia a difendersi non perché si riconosca colpevole, ma perché "quando è troppo è troppo" - e, dall'altra, organismi sportivi nazionali e internazionali disposti a tutto, anche ad applicare sistemi di giudizio più spettacolari che ponderati, per recuperare alla svelta un'immagine rispettabile o addirittura edificante delle discipline a loro affidate. Ecco perché, allora, è possibile avere la sensazione, contraddittoria, che da una parte uno sport come il ciclismo venga setacciato con zelo perfino eccessivo (l'ex campione Felice Gimondi, ieri, ha parlato di «accanimento») e dall'altra che, comunque, in realtà cambi poco, le sostanze illegali continuano a circolare e la cultura sportiva non si sia ancora liberata dell'ossessione per l"aiutino" chimico.
Sarà così, forse, finché non riconosceremo che di doping, nello sport, ce n'è più d'uno e quello farmaceutico non è neppure il più evidente.
Oggi, per esempio, incomincia il campionato - serie A e B - e non c'è modo di negare che il carrozzone calcistico si presenta psicologicamente alterato come non mai, fosse solo dalle polemiche se non dalle polverine magiche. Giusto alla vigilia, l'allenatore di una delle squadre più importanti è stato squalificato per l'omessa denuncia di una combine, provvedimento al quale ha replicato attaccando con virulenza la giustizia sportiva, accusandola di essere «pappa e ciccia» con uno «che si è venduto la partita, le famiglie e i compagni di squadra». Con tutto ciò, da oggi noi dovremmo chiudere tutti i possibili occhi a nostra disposizione e guardare al calcio come fosse il giardino dell'Eden.
Non lo è, se non altro perché è un business. Parola che non ci fa schifo, sia inteso, ma che, applicata al professionismo del pallone e di altri sport, diventa subito sinonimo di doping finanziario, ovvero di incoscienza contabile e immoralità contributiva. Bisognerebbe proprio che, davanti a tanti eccessi e distorsioni comportamentali, i media facessero il loro dovere di raccontare e spiegare, consegnando i fatti alla loro giusta proporzione, attendendosi sempre alla ragione e all'onestà, se non proprio alla verità assoluta. Non è il caso, però, visto che, salvo eccezioni, anche l'informazione sportiva, perduta la sobrietà un po' paternalistica del passato, oggi si butta nella mischia con tutta la faziosità delle curve più calde. Doping, niente altro che doping, anche se non somministrato in pillole. E non ce ne libereremo mai se, come tocca a tutti i drogati, non ammetteremo per prima cosa di esserne diventati dipendenti e dunque complici.
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