Martini allora era un outsider, un illustrissimo biblista, uno stimato professore gesuita cinquantaduenne che aveva dedicato fino a quel momento la sua vita all'insegnamento e alla ricerca. A Giovanni Paolo II padre Martini aveva spiegato le sue titubanze nell'accettare: «Spiegai che ero vissuto sempre a contatto con un numero limitato di studenti, nelle aule universitarie. Non sapevo come andare incontro alla gente. Il Papa mi disse: “Sarà la gente che verrà incontro a lei”».
Arrivò a Milano, e per ventidue anni - anni difficili per la storia della città e del Paese, segnati dal terrorismo, dalla crisi di Tangentopoli e dai problemi emergenti dell'integrazione degli immigrati - seppe trovare nella Parola di Dio una fonte inesauribile d'ispirazione. Seppe leggere alla luce dell'eternità i fatti contingenti, dimostrando in che cosa consista quello che definirà «il relativismo cristiano», e cioè la capacità di leggere ogni cosa rapportandola alle realtà ultime, al destino ultimo dell'essere umano.
Soffriva Martini, perché troppo spesso il suo stile e le sue parole, in molti casi enfatizzate oltre misura o tolte dal loro contesto, venivano utilizzate per contrapporlo a Papa Wojtyla. Una responsabilità di certo non solo mediatica. Sembrò quasi che a Milano, per oltre due decenni, sedesse un antagonista del Pontefice. Era pur vero che la sensibilità e anche certe convinzioni del professore divenuto arcivescovo erano diverse da quelle del Papa polacco che l'aveva voluto nel capoluogo lombardo.
Ma la contrapposizione, creata anche da quei progressisti che hanno rischiato di trasformare Martini in una bandiera, servendosene per giustificare il loro dissenso e in qualche caso la loro disobbedienza alle autorità romane, non è mai stata reale e non ha mai riguardato l'essenziale. Così, proprio per dimostrare il suo attaccamento al Papa, Martini era solito citare Wojtyla quasi in ogni omelia. Come volesse dire: «Non sono come mi dipingete, mi va stretto il cliché del vescovo progressista».
Certo, quello di Martini non è mai stato un cristianesimo che si rinchiude nelle proprie certezze, che alza muri identitari, che si considera una cittadella assediata. Con il suo stile, sempre austero, schivo e riservato, il cardinale aveva preso molto sul serio le parole di Giovanni Paolo II. Aveva iniziato a raccontare il Vangelo, a gustare la Parola di Dio, e la gente era venuta da lui. Ma aveva cercato il dialogo, l'incontro e il confronto anche con chi non crede, con chi dubita, con chi è lontano. Aveva vissuto la fede in un modo che si trova perfettamente descritto in queste parole dell'allora cardinale Joseph Ratzinger, contenute nel libro «Dio e il mondo» (2001): «La natura della fede non è tale per cui a partire da un certo momento si possa dire: io la possiedo, altri no… La fede rimane un cammino. Durante tutto il corso della nostra vita rimane un cammino, e perciò la fede è sempre minacciata e in pericolo. Ed è anche salutare che si sottragga in questo modo al rischio di trasformarsi in ideologia manipolabile. Al rischio di indurirci e di renderci incapaci di condividere riflessione e sofferenza con il fratello che dubita e si interroga. La fede può maturare solo nella misura in cui sopporti e si faccia carico, in ogni fase dell'esistenza, dell'angoscia e della forza dell'incredulità e l'attraversi infine fino a farsi di nuovo percorribile in una nuova epoca».
Proprio come era accaduto per Papa Wojtyla, con cui ha condiviso anche la passione giovanile per il teatro e alla fine il morbo di Parkinson, la testimonianza più bella Martini l'ha offerta negli ultimi anni, vivendo il suo personale Calvario nel totale abbandono in Dio. Nell'ultima intervista che mi aveva concesso, alla fine del 2011, aveva detto: «La mia malattia non mi dà dolori ma solo limitazioni. È bello accettarle come unione ai patimenti di Cristo. Durante la giornata ciò che mi dà più gioia è visitare il Santissimo Sacramento».
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