La mano di Al Qaeda negli eventi è indubitabile e la si nota da due tratti tipici del suo operare: la capacità di infiltrarsi nei Paesi in crisi e la puntualità nel mettere a segno i colpi più forti proprio quando possono produrre il massimo effetto. Come, nel caso degli Usa, durante la campagna per le elezioni presidenziali che tutto amplifica e drammatizza. In questo modo, Casa Bianca e America intera si trovano esposte su due lati nello stesso tempo. Da una parte, è sotto attacco il presente, cioè l'assetto strategico che Obama ha costruito in quattro anni di carota e bastone, di persuasione politica e intervento militare. I Paesi più coinvolti sono proprio quelli in cui più si è vista la mano «riformista» della Casa Bianca: l'Egitto, nel dopo-Mubarak passato prima ai fidati militari poi ai Fratelli Musulmani ; e lo Yemen, dove al dittatore Saleh è succeduto, in una rivoluzione morbida guidata appunto dagli Usa, il suo ex vicepresidente.
Questo di Al Qaeda, dunque, è anche un attacco alla Primavera araba filo-americana. Ma dall'altra parte, è sotto attacco il futuro dell'America. L'assassinio dell'ambasciatore Stevens è un chiaro tentativo di indirizzare le elezioni verso una vittoria della linea dura dei repubblicani. Al Qaeda non ha mai avuto tanti seguaci come quando ha potuto «vantarsi» di essere l'unico contraltare islamico alla potenza americana. Gli Usa, dunque, andavano stanati e, se possibile, riconsegnati alla pulsione dell'occhio per occhio-dente per dente, della risposta senza se e senza ma, dell'azione prima della politica. Ecco la strategia di fondo che regola gli eventi di questi giorni. Il resto, a partire dal demenziale film su Maometto, è solo contorno
È chiaro dunque che la vera partita, il vero confronto con la nuova sfida di Al Qaeda, ora non si gioca in Egitto o in Libia ma negli Stati Uniti. Tocca al popolo americano scegliere la linea di condotta dei prossimi quattro anni nei confronti dell'estremismo islamico.
Fulvio Scaglione
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