Draghi ha imparato la lezione “italiana”. Non appena la BCE aveva dato sollievo al nostro Paese, con l'abbassamento degli spread la riforma del mercato del lavoro era diventata altra cosa rispetto a quella “suggerita” dalla lettera DRaghi-Trichet dell'agosto 2011 e le province, che dovevano essere abolite, sono state solamente “ridimensionate”.
Proprio il caso italiano ha insegnato a Draghi che le lettere non bastano: la BCE è priva dei poteri “coercitivi” necessari ad accompagnare gli Stati membri sulla retta via. Così, è stata disegnata questa elaborata architettura istituzionale che dovrebbe salvare capra e cavoli.
Tutto bene quel che finisce bene? L'iniziativa di Francoforte ha rassicurato i mercati e si è rafforzata grazie al voto della corte costituzionale tedesca, la quale non si è espressa contro il fondo salva-Stati europeo. Purtroppo, non siamo ancora al “tutto bene quel che finisce bene”. Mario Draghi si è fatto carico di una responsabilità immensa. I suoi interventi sui titoli di Stato saranno, di fatto, pienamente discrezionali. Il mercato è una sorta di termometro: è un testo, che viene scritto nell'incontro fra chi vende e chi compra.
Secondo la Banca centrale europea, il differenziale fra titoli di Stato italiani (o spagnoli) e tedeschi non rappresentava più valori “oggettivi”: il termometro era rotto. Ma al termometro del mercato, ora si sostituisce la banca centrale stessa. “Prezzare” il debito di un Paese è un po' diverso che controllare le lineette di febbre segnate dalla colonnina di mercurio. Dal prezzo di mercato, si intuiscono quali sono le valutazioni degli attori: sulla capacità di quel Paese di ripianare i suoi debiti negli anni a venire. Un Paese che ha molti debiti ma cresce poco farà fatica a finanziare il suo debito.
La BCE è convinta che il prezzo di mercato non sia quello “giusto”, ma nello stesso tempo non crede certo che la Grecia, l'Italia, la Spagna o il Portogallo abbiano già fatto tutti i “compiti a casa”. Per questo motivo, si è riservata totale discrezionalità nel decidere quanto debito acquistare, e lo farà comunque esclusivamente a beneficio di quei Paesi che si siano presi chiari impegni, nella direzione del risanamento, con il fondo salva-Stati.
Non è scontato che questo gioco vada a buon fine. C'è un certo consenso, fra gli osservatori, per cui tutti i problemi dell'Europa sarebbero risolti se i Paesi dell'eurozona rinunciassero alla loro “sovranità fiscale”: cioè accettassero che Bruxelles sorvegli le loro decisioni di spesa. L'Europa diventerebbe perciò una sorta di grande Stato nazionale: una sola moneta, decisioni di spesa centralizzate.
Ammettiamo che questa sia l'unica possibile conclusione della storia. Gli interventi della BCE ci allontanano o ci avvicinano a questa conclusione? Da una parte, pare che si sia implicitamente rinunciato alla clausola dei Trattati europei per cui non erano ammessi “salvataggi” degli Stati membri, in caso di default. Dall'altra, questa strategia della BCE implica, monetizzazione del debito: cioè inflazione e “politicizzazione” dell'attività della Banca Centrale. La quale mette la sua indipendenza e il suo mandato (la stabilità dei prezzi) a repentaglio, per levare le castagne dal fuco agli Stati indebitati.
Se la Banca Centrale leva loro le castagne dal fuoco, e se si decide tacitamente che nessuno può fallire, perché gli Stati dovrebbero affannarsi a fare i compiti a casa, o addirittura a rinunciare alla loro sovranità fiscale? La sicurezza di avere un paracadute a disposizione potrebbe portare gli Stati a tornare alla spericolatezza fiscale: con l'unico esito di posticipare il redde rationem.
Alberto Mingardi
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