Che Marchionne se la sia cercata è indubbio. Ma il manager con il maglione non è tutta la Fiat. E comunque se ci fosse ancora nei paraggi l'Avvocato, nessun presidente del Consiglio si sarebbe permesso di snobbare con un «ho anche altri incontri oggi», l'appuntamento con l'amministratore delegato della principale impresa italiana.
Non sarà che dietro la spocchia di Monti affiora il nodo della politica del governo nei confronti delle imprese? Non sarà che lo Stato poco o nulla sta facendo per puntellare il mondo dell'industria italiana di fronte alla peggiore crisi del dopoguerra? Fisco e burocrazia sono lungi da essere meno aggressivi e invasivi. Tanto che chi può scappa all'estero. E chi resta sono affari (magri) suoi. E anche la compagine tecnica, salutata con sollievo dalla platea imprenditoriale finalmente conscia dell'impresentabilità e dell'inefficacia politica dei predecessori comincia a suscitare più di un mugugno da Squinzi in giù.
La premessa, è ovvio, non giustifica la scelta, sia pure legittima, di chi, come denuncia il segretario della Cgil comasca, Tarpini, sceglie di abbandonare la trincea del lavoro per arroccarsi dietro i soliti muri del mercato immobiliari e scappare con la cassa.
Chiamarsi fuori non è illegale, ma è sbagliato. Se però si prende questa strada, come confessa il patron di Pontelambro, Stefano De Marinis, per tentare quantomeno di onorare i debiti e le spettanze dei lavoratori le cose cambiano. La verità è oggi, nel Comasco come altrove, gli imprenditori sono uomini soli. Abbandonati dallo Stato che, lungi da aiutarli, spesso li vessa e li ostacola, pressati da un sindacato anch'esso stralunato da una crisi per cui non ci sono ricette, ma spesso prigioniero di un'arretratezza culturale che lo porta a compiere scelte rituali che finiscono per ritorcersi contro lo stesso interesse dei lavoratori che le organizzazioni di categoria dovrebbero tutelare. D'altro canto la politica, da "Er Batman" in giù (o in su) sembra essere in altre faccende affaccendata per occuparsi di una crescita che non sia quella della propria rendita personale a colpi di aragoste, vini d'annata e vacanze in resort pagate con i soldi dei contribuenti. Tutti si riempiono la bocca sull'importanza del rilancio del manifatturiero come antidoto alla dittatura della finanza. A Como dove il manifatturiero ha ben contato qualcosa nella storia economica e sociale del territorio, arrivano solo i bla bla.
È un corto circuito in cui la viaggia l'alta tensione della crisi che folgora tutti. Gli imprenditori sbagliano e hanno sbagliato. Molti di loro non hanno aperto l'ombrello per tempo, quando all'orizzonte si scorgevano le prime nubi. Allora sarebbe stato il momento di dirottare gli utili (che c'erano) verso l'innovazione tecnologica e non magari nei capannoni e i patrimoni personali. Chi l'ha fatto (pochi) oggi può godersi i piedi asciutti.
È finita magari che i capannoni sono rimasti vuoti e il patrimonio è stato risucchiato dalla crisi. Perché tutte le erbe non fanno mai un fascio. E a fianco di chi tira su quello che è rimasto e scappa, lasciando le maestranze sul lastrico, ci sono anche coloro che aprono la cassaforte di famiglia e versano il contenuto nella fornace dell'azienda. Anche questa non è detto che sia la scelta giusta.
Alla fine, l'unica strada è quella di rendersi conto che siamo tutti sullo stesso ramo: imprenditori, lavoratori, sindacati e politici (anche se lì l'effetto dell'onda sarà più lungo). Se si continua a non capire e a mettercela tutta per segarlo ci si ritroverà insieme con le terga al suolo. Allora rialzarsi sarà davvero duro.
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