Una miscela talora depressiva e pure di riscatto che nasce nei luoghi reali dove si produce, abitati da persone vere, tardivamente rivalutati dal discorso pubblico dopo la sbornia finanziaria.
Gli industriali, si sa, hanno una serie di rimostranze che sono state elencate, per quanto non siano state sparate cannonate contro i guasti della malapolitica, mentre il giudizio sul governo Monti è parzialmente positivo ma il riformismo dell'esecutivo tecnico è ritenuto al di sotto delle attese. In testa, e in modo reiterato, ci sono il no alla riforma del lavoro del ministro Elsa Fornero e il timore che l'Imu, se dovesse assimilare gli impianti agli immobili, penalizzi l'attività produttiva.
Ma, al di là del cahier de doléance, le prospettive indicate puntano su tre fattori che vanno presi in considerazione.
Il primo, forse il più importante, riguarda i Bond del territorio, «uno strumento per consentire al risparmiatore di aiutare lo sviluppo del suo territorio e, indirettamente, contribuire al finanziamento del suo lavoro. Nello stesso tempo le banche rilanciano la loro dimensione territoriale».
Il secondo è politico-culturale, in discontinuità rispetto ad un certo andazzo da Seconda Repubblica.
Il terzo è il rilancio della società della conoscenza in sinergia con l'Università. Il tutto inserito nel patriottismo del manifatturiero, dell'economia reale: la passione dell'industria di base, cioè la passione per la cosa in sé, quella che si costruisce con la manualità creativa dal basso, e il legame automatico fra il successo dell'impresa e il successo del territorio. Uno schema intellettuale e insieme realistico.
Il problema è ricollocare il ruolo essenziale dell'industria, «un settore che in definitiva è portatore di un reale progresso economico e sociale, che offre opportunità a molti, non a pochi».
Agli imprenditori il presidente nazionale di Confindustria Giorgio Squinzi, in modo asciutto e soft, ribadisce la sua linea: la necessità di uno scambio fra riduzioni degli incentivi alle aziende e minori tasse, semplificazioni normative, un regionalismo più bilanciato, un esplicito europeismo.
Su Fiat e Marchionne, che sono una spina nel fianco anche di Confindustria, ha sostanzialmente glissato e sul Monti-bis è, in linea teorica, d'accordo purché abbia una legittimazione elettorale e dunque politica.
L'impressione è che Confindustria, più che inseguire toni critici e rivendicativi, punta tuttora sul dialogo e sulla mediazione, consapevole di poter disporre di un'eccellenza produttiva che tiene le posizioni e convinta di quel "mettiamocela tutta", come ha esortato Squinzi.
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