Come si vede, aggettivo e sostantivo condividono una radice sostanziale: straordinario è ciò che va oltre la normalità.
L'ordinario, appunto. Rifacciamo l'esperimento con "premio": «s. m.: dono che si concede come riconoscimento di un merito o per la vittoria riportata in una gara; per estensione: ricompensa».
Tra "straordinario" e "premio" intravediamo un filo conduttore: entrambi ci consegnano l'idea, la speranza se volete, di un frutto raccolto in seguito a un impegno eccezionale e per meriti particolari. Frutto, si supporrebbe, da godere per sé e per la propria famiglia. Non per egoismo, ma come giusta ricompensa, ovvero equo riconoscimento di uno sforzo al di là del "normale" e del "dovuto".
Ecco: abbiamo scoperto che, da qualche tempo, per i lavoratori non è (più) così, o lo è solo in parte. Il lavoro straordinario lo fanno sempre loro, i meriti sono ancora il risultato del loro impegno e della loro dedizione, ma il frutto succoso che ne deriva se lo pappa lo Stato. In termini tecnici, si chiama restrizione dei parametri per l'applicazione dell'aliquota agevolata del 10% sui redditi legati alla produttività. In pratica, fino a poco tempo fa lo Stato, per certe quote di reddito, imponeva meno tasse sugli straordinari e i premi di produzione. Oggi, assetato di denaro, ha abbassato il reddito minimo, imponendo agli stipendi netti una bella riduzione: fatti due conti, e noi li abbiamo fatti, duecento euro in meno in busta paga.
Il che sarebbe già grave e doloroso, se non ci fosse qualcosa di ancor più grave e doloroso. Perché se ci eravamo rassegnati all'idea di lavorare buona parte dell'anno e, di conseguenza, della nostra vita, per finanziare uno Stato che, in cambio, elargisce servizi a singhiozzo, non necessariamente efficienti e spesso affidati a mani poco competenti e/o oneste, risulta molto più difficile tollerare che perfino il frutto dell'impegno fuori dal "normale", il guadagno concesso come "premio" per obiettivi raggiunti, finisca per sparire inghiottito dalle sabbie malferme dell'apparato statale. A dirla tutta, ci suona male due volte: prima come beffa, poi come ingiustizia.
Non facciamola più grossa di quella che è: non è il caso di prendersela con l'Europa, con gli accordi internazionali, la Bce, Maastricht, la Bundesbank e i poteri forti: è solo che, stangata dopo stangata, diventa sempre meno chiaro perché con il nostro lavoro - per chi ancora ne ha uno - tocca finanziare uno Stato irragionevolmente avido e, soprattutto, molto meno disposto di noi a fare sacrifici, alleggerire le spese e, quel che è peggio, fare finalmente piazza pulita di sprechi e privilegi.
Il lavoro, si dice, è sacro. Se è così, allora quello straordinario dovrebbe esserlo due volte: dovrebbe rappresentare il piccolo margine concesso a chi lavora di più e meglio, un "tesoretto" da condividere con i propri cari per portarli in gita la domenica, non per assicurare l'auto blu all'ennesimo sottosegretario.
Mario Schiani
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