Era un mezzogiorno freddo di ottobre, di una manciata di anni fa. Era appena suonato il campanello di casa. Come succedeva tutti i giorni, più volte al giorno… di tutti i santi giorni.
Lei, la Carla, si mise il dito indice alla bocca, sorrise, con il sorriso che gli anni non le hanno mai intaccato, e me lo ripeté più decisa: «Aspetta quando sarò morta».
In casa era già tutto pronto. Appena sotto la finestra, quella che fatica ad affacciarsi sul giardino, per via della troppa edera che sale sul muro di casa, c'era già il tavolo rotondo apparecchiato. C'erano i sei piatti di porcellana antica decorata, messi lì nel posto dove dovevano stare, e le posate allineate, come lei voleva che fossero. I destra i sei bicchieri belli, con già il vino versato e i tovaglioli con i ricami a punto e croce ingialliti. A sinistra le sei coppette d'argento, con l'acqua dentro per detergersi le dita e, nel mezzo, il piccolo vaso in cotto con i ciclamini freschi, che l'Alina aveva appena reciso in giardino.
Quel giorno si respirava odore di legna che stava bruciando nel camino fin dal mattino e c'era il sapore del riso di Panamà che cominciava ad uscire dalla cucina.
Il gatto si era già nascosto sotto il divano, come ogni volta che sentiva suonare il campanello e il pendolo aveva appena scandito i dodici rintocchi… anche quel giorno con un paio di minuti di ritardo rispetto al campanile di San Giuliano.
Lei mi prese per un braccio. «Aiutami ad alzarmi, che non voglio farmi trovare seduta», mi sussurrò quasi scusandosi.
Una stretta. L'altra mano appoggiata sul bastone e andò verso la porta, sistemandosi la collana che le fasciava il collo.
Non ricordo chi comparve quel giorno e chi fossero gli invitati a colazione. E, a ben pensarci, non vale nemmeno la pena sforzarsi per dare loro un volto… tanto sono passati tutti da questa casa.
L'unica cosa difficile da dimenticare è il volto stanco di lei, quando strinse le loro mani, stando ritta sulla porta e, soprattutto, l'ultimo spossato sorriso, quando se ne andarono.
«Io sono tanto stanca oggi! - disse adagiandosi in poltrona - Oggi non ho proprio capito niente di quello che si sono detti. Ma va bene lo stesso. Sono contenta che si siano parlati e siano stati bene».
Con una smorfia si cacciò via dal volto la stanchezza.
«Quando non ci sarò più - sussurrò - di me diranno tante cose, molte anche strampalate. In pubblico mi attribuiranno dei meriti che non ho mai avuto e, in privato, mi daranno delle colpe che non ho mai commesso. Tu ricordati che la cosa più importante che io ho fatto nella mia vita è stata quella di fare incontrare le persone nella mia casa».
Un attimo per riprendere fiato. «Sì! Fare incontrare le persone è più importante dei romanzi, dei premi e degli che si riescono a vivere».
Le scese persino una lacrima. «Ricordati! Le persone che si parlano… Questa è la cosa più importante!».
Bevve un sorso dal bicchiere e prima di addormentarsi ripeté: «Ma questo scrivilo soltanto quando sarò morta».
Il gatto uscì da sotto il divano e nel camino stava scoppiettando l'ultima brace. Il campanile di San Giuliano lasciò partire i tre rintocchi e di lì a poco avrebbe fatto altrettanto anche il vecchio pendolo a muro.
Lei si addormentò… Ma stava di nuovo suonando il campanello di casa.
Giuseppe Guin
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