Oggi diventa impossibile guardare negli occhi un figlio, un nipotino e non provare un profondo disagio: chiedersi che Paese siamo, quali certezze (parola da brivido, ma che dobbiamo almeno abbozzare per sentirci adulti) possiamo offrirgli, quando abbiamo le immagini di Padova impresse a fuoco nella mente.
Un bambino, solo un bambino. Prelevato a forza proprio davanti a scuola, al suo piccolo mondo di studio, giochi e bisticci scherzosi con i compagni. Strappato a sua madre in quel modo plateale e violento. Messo da parte il provvedimento in sé - su cui è ingiusto discutere senza conoscere a fondo la situazione familiare - ci schiaccia il "come".
Un ragazzino abbastanza grande da tentare di disperatamente di opporsi, ma troppo piccolo per farcela davvero. Osserviamo impietriti quella sua resistenza, che non si può che definire passiva, di fronte agli adulti che lo portano via. All'improvviso l'allontanamento si è trasformato in una lotta. Ma si può definire lotta, quella nei confronti di un bambino?
All'improvviso, ci sentiamo inchiodati da questa scena surreale. Un ragazzo, non un criminale aggressivo, viene afferrato e trascinato via sotto i nostri occhi, tra le urla di chi assiste e di chi gli vuole bene.
Tutto è raccontato da quel video trasmesso a "Chi l'ha visto", che ha provocato una feroce mobilitazione sui social network. Che ha portato il capo della polizia a intervenire e chiedere scusa ai familiari. Infine, che ha causato l'azione del garante, per verificare se siano state violate le disposizioni sui minori.
Un sintomo di degrado, la diffusione del video: così qualcuno l'ha definita. Come se improvvisamente il problema fosse questo: il fatto che fosse stato ripreso l'accaduto, e reso noto.
Ora, se di degrado della tv si tratta, non lo sappiamo. Anzi, per essere sinceri fino in fondo, in questo momento non ce ne frega niente.
Ciò che ci scuote e che ci manda in crisi, è sapere che oggi per allontanare un bambino da una madre (o da un padre) vengono usati anche questi metodi nel nostro Paese. È un evento che frantuma ogni nostra illusione di un sistema in grado di proteggere i più piccoli, i più fragili. E se non riusciamo a tutelare nemmeno i bimbi, tutti i nostri sforzi e le nostre convinzioni sono cenere.
Per un istante oggi ci verrà da distogliere lo sguardo dai nostri figli, dai nostri nipoti, perché non vogliamo che essi colgano il nostro smarrimento, il senso di sconfitta. Ma è troppo comodo. Le ferite psicologiche inferte a quel ragazzo non potranno mai essere guarite. L'unico modo che abbiamo per aiutare lui e tanti altri bimbi dei quali nulla sappiamo, è non lasciar morire lo sdegno, una volta sceso il silenzio sulla vicenda. È alimentare dentro di noi il dubbio - se ancora non ce l'eravamo fatto venire - che ci sono troppo incrinature nel sistema che si occupa dei minori. È vigilare e spingere il nostro sguardo, accorgendoci dei drammi silenziosi che nessuno filma e che nessuno osa prima ancora raccontare.
Quella scena è successa sotto i nostri occhi. E d'ora in poi ciascuno di noi deve sentirsi responsabile, se chiude gli occhi.
Marilena Lualdi
© RIPRODUZIONE RISERVATA