Perché
signore
i bambini
muoiono?

E adesso bisognerebbe scrivere un grande pezzo. Adesso che il corpo di Simone  Molteni - il bambino di Orsenigo ucciso da una malattia rarissima - è sotto due metri di terra bisognerebbe saperlo scrivere, questo pezzo benedetto, bisognerebbe esserne capaci, bisognerebbe aver qualcosa di intelligente o almeno di compassionevole da dire.
Bisognerebbe levigare per bene le armi della retorica, ecco cosa bisognerebbe fare, affusolare aggettivi dorati, sparpagliare note di speranza, vellicare tutte le corde patetiche dell'emozione, con grande rispetto, certo, ma anche con grande mestiere e tecnica e virtuosismo e, a dir la verità, anche con quel tocco di cinismo che la persona distante - le tragedie ti scuotono per davvero solo quando colpiscono te e il tuo misero microcosmo, questa è la verità - può calibrare con freddezza per scuotere, commuovere, emozionare. Il distacco è l'unica via per essere lucidi, ed è così che si dovrebbe fare. Bisognerebbe tratteggiare lo strazio dei genitori che si erano illusi di averlo salvato dopo il trapianto del midollo, ricordare la storia già di per sé terribile del fratellino scomparso un anno fa per lo stesso male, raccontare le bare bianche, le facce stravolte delle persone buone, le lacrime dei medici e degli amici e delle maestre, modulare una prosa flautata tutta zampillante angioletti e cherubini e serafini e grandi speranze di vite oltre la morte e messaggi esemplari per chi resta e comunità che si stringono intorno a quella famiglia martoriata e fiori bianchi che occhieggiano dalla chiesa e bianche colombe che volano nel cielo e tenere riflessioni di un povero parroco affranto.
Ce ne sarebbero di cose da scrivere, stando sempre attenti a non scivolare da quel crinale sottilissimo che ti fa precipitare dalla compassione alla melassa, dal dolore alla sceneggiata, dalla prosa sincera alla letteratura da stazione, tipica dei giornalisti di serie C, che iniziano parlando degli altri ma poi finiscono - inesorabilmente - per parlare solo di sé. E invece niente. Non c'è niente da dire. Niente. Niente di niente. Non ci sono parole, né pensieri alati, né messaggi molto compresi nel ruolo di chi deve informare e dire tutto e raccontare anche le cose più terribili senza nascondere né omettere nulla, perché questo è il nostro sporco mestiere, la nostra missione, la nostra parte in commedia al servizio della democrazia e della trasparenza e dell'informazione corretta e leale e bla bla bla… Quante volte ce la siamo raccontata questa storia, noi scribacchini, quante volte? Che poi è vero, perché è così che deve essere,  anche se lo diciamo sempre, ma poi tanto spesso non solo non lo facciamo ma neppure lontanamente lo pensiamo. È questo il sale del nostro lavoro. Ma ora, di fronte a una notizia del genere, di tutto questo non resta alcuna traccia. Che sconfitta.
Rimaniamo solo noi con la nostra inadeguatezza a poter esprimere in cento righe il dolore più assoluto: la mancanza di senso. Il nostro ottimo Paolo Moretti, in un appassionato editoriale di due giorni fa, se ne dice convinto, ma invece, a parere di chi scrive, non c'è nulla che possa consolare i genitori, nulla davvero, né missioni sociali, né impegni nel salvare la vita di altri bimbi sfortunati, né  altre cose ancora. Quando l'ultimo amico ti ha dato l'ultimo abbraccio, quando l'ultima telefonata è finita, quando l'ultimo rigo del santo o dello stoico o del saggista è stato letto e ponderato, quando l'ombra della notte è scesa sui sentieri del mondo allora, in quel momento, sei solo. Solo tu e il tuo dolore. E neppure la persona più cara che ti vive accanto può condividerlo. Si nasce soli, si vive soli, si muore soli. Si soffre soli. Il dolore. La cognizione del dolore, alla quale devi sopravvivere per tutti gli anni che ti restano.
E allora viene istintivo, inevitabile quasi, pensare che non ci sia niente sopra di noi. Niente. Solo questo vecchio sasso, un cielo vuoto e una luna indifferente, che ti colpisce quando vuole, come vuole e senza alcuna motivazione. E allora - e non è necessario aver letto Schopenhauer o Cioran per arrivarci - si può ritenere che l'esistenza sia male in sé e che la cosa migliore sia non essere, non essere mai nati, perché il mondo è soltanto un inferno popolato da anime tormentate e da demoni. Ma per chi crede, invece, forse è pure peggio. Perché se Dio c'è, allora il dolore ha un senso. Quindi, c'è un senso per tutto. E così a te genitore che hai perso un figlio in quel modo, viene una gran voglia di andarlo a prendere, quel signore che vigila su tutti noi dai tempi dei tempi, e tirarlo giù per la barba dalle sue nuvole zuccherine e fargli vedere cos'ha combinato pure stavolta. E' un Dio nascosto, dicono. E se lo è, si nasconde davvero bene: non appare, non parla, non agisce. Tira le sue fila invisibili e noi sotto, inconsapevoli e sballottati dai mille rivoli della storia proprio come i contadinotti sprovveduti di Manzoni, meno orgogliosi ed eroici delle ginestre di Leopardi, ma di certo più saggi. Ecco, alla fine, se si riuscisse ad accettare l'abbandono alla Provvidenza divina forse si sarebbe trovata la soluzione. Scommessa vinta, come diceva Pascal. Forse è questa l'unica saggezza che pacifica il tormento, ma che grande forza per farla propria… Resta solo una cosa, una domanda - la domanda ultima, la domanda assoluta, la domanda alla quale nessuno può dare risposta - che ci perseguita. In una pagina indimenticabile dell'Idiota di Dostoevskij, il principe Myskin - il buono, il puro, il mitissimo Myskin, reincarnazione del Cristo nella Russia degli zar - rivolgendo il suo sguardo incorrotto sull'esistenza, riusciva comunque, forte della sua fede, la stessa che i genitori di Simone hanno dimostrato in questi mesi, a dare un senso a tutte le brutture, tutte le violenze, tutti i dolori, tutte le ingiustizie del mondo. "Ma solo a una domanda non sapeva rispondere: perché, Signore, i bambini muoiono?".
Diego Minonzio

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