Nei prossimi mesi 1800 comaschi, grazie alla recente riforma del mercato del lavoro, resteranno senza stipendio, senza cassa integrazione, senza mobilità. Cioè resteranno senza niente. Attenzione, non stiamo parlando di numeri, stiamo parlando di persone, di padri di famiglia e quindi di madri che devono fare la spesa, di figli che vanno a scuola e devono pagare la mensa e i trasporti, di mutui che non spariscono magicamente e di bollette che arrivano puntuali. Insomma, stiamo parlando di una vera e propria emergenza sociale di cui non si capisce chi si farà carico. Questo è il risultato evidente di una politica brava a fare i conti ma cinica nel non considerare quali saranno le conseguenza della quadratura dei bilanci statali. Nessuno lo dice ma sembra di essere tornati al dopoguerra, quando anche chi aveva un lavoro, non era certo di poter campare con dignità. Oggi per chi perde il lavoro non ci sono paracaduti, non ci sono reti sociali, non c’è la solidarietà dei vicini o dei parenti. Non c’è nulla se non la solitudine e la certezza di entrare in un tunnel buio e spesso senza uscita. Ma non è finita. A quei 1800 che resteranno senza una lira (anzi, un euro), si aggiungono 40 mila comaschi che si ritrovano da anni con stipendi che non riescono più a coprire nemmeno le spese per i beni di prima necessità. Il meccanismo è semplice e conosciuto. L’inflazione (il costo della vita), negli ultimi anni, è cresciuta costantemente del doppio rispetto alle retribuzioni. Vuol dire che la massaia che va a comprare il pane lo paga il doppio ma i soldi che ha in tasca sono sempre gli stessi. E’ la condizione comune a milioni di persone. Aggiungiamo che buona parte di quello che uno guadagna finisce nelle tasche dello Stato (siamo uno dei Paesi europei con il più alto tasso di pressione fiscale) e che, tanto per gradire, il governo ha deciso di aumentare l’Iva per fare cassa e che quindi tutto costerà di più. Compresi tutti i prodotti a cui nessuno, nemmeno i più poveri, possono rinunciare. E poi il governo si lamenta preoccupato perché i consumi delle famiglie crollano e l’economia non decolla. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Dunque che fare? Dobbiamo arrenderci all’idea di avere le mense della Caritas piene all’inverosimile? Di vedere uomini che hanno dignitosamente vissuto del loro lavoro piegati dalla vergogna, salire sui tetti delle fabbriche o in cima a qualche ciminiera? Quello che è accaduto in queste settimane davanti ai cancelli della Eleca di Cantù, ha qualcosa di inusuale e di commovente. I lavoratori senza posto e senza stipendio che ricevono in continuazione l’affetto della gente qualunque, quella che passa per strada e regala 50 euro o cento chili di pasta. La gente che è capace ancora di indignarsi e di non restare insensibile e indifferente. Ma può bastare questo magnifica dimostrazione di solidarietà? No, non può bastare. Se quel numero di 1800 lavoratori sarà confermata dai fatti, servirà molto di più. Un’emergenza sociale di quelle dimensione deve essere evitata. E’ ancora possibile; le riforme si fanno, ma quando sono sbagliate, è possibile modificarle. Ma se quel numero fosse confermato occorrerà un colpo d’ala della politica, la grande assente. Chi fa politica ha un solo scopo: difendere la dignità della gente che è chiamata a governare, difendere le sue condizioni di vita. Sarà uno sconfitta senza ritorno se solo uno dei quei 1800 si troverà da solo, costretto ad entrare nel tunnel della disperazione. Massimo Romanò
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