E' come una sorta di apartheid. Se sei svizzero, hai un trattamento. Se sei italiano, ne hai un altro. E se sei svizzero, sei trattato in maniera migliore. Guadagni di più, lavori di meno e vieni preso in maggiore considerazione rispetto ai colleghi con una nazionalità diversa sul passaporto.
Forse non sono ancora arrivati a dividere i bagni, ma la disparità di trattamento tra svizzeri e frontalieri preoccupa il sindacato Unia che ha lanciato due campagne. La prima chiede un contratto di lavoro collettivo uguale per tutti. La seconda un salario minimo di 4mila franchi. Invece sta succedendo proprio il contrario. L'apartheid, che in linguaggio economico si chiama dumping e in parole povere si chiama due pesi e due misure, spopola. Più il lavoro viene a mancare in Italia più i comaschi lo cercano in Svizzera. E più la crisi si fa sentire anche lì, più tentano di risparmiare sulla testa degli stranieri. Se c'è chi li vorrebbe direttamente a casa loro, come il presidente della Lega Ticinese che a più riprese ne chiede la cacciata, c'è chi a casa li rispedisce senza neanche salutare.
Luisa Seveso, presidente Acli, dice che in una settimana se ne è vista arrivare quattro di commesse licenziate in tronco. Una di loro racconta come funziona: «La titolare è entrata. Ha detto che d'ora in avanti avrei guadagnato 2mila euro anziché 3mila. Ho detto: no». Le è costato il lavoro.
Ora, tremila euro può sembrare uno stipendio da favola per una commessa e duemila non sono pochi comunque. Ma in Svizzera la vita costa molto più cara. E in ogni caso l'Italia non è l'unico Paese in cui il lordo viene decurtato dalle tasse fino a sembrare la cifra finale molto meno eccitante di quella cifra di partenza. In ogni caso il licenziamento fa tremare. In Svizzera come in Italia. E questo, poi, segue una sorta di ricatto: o ci stai, o sei fuori. E se sei fuori, un lavoro non lo trovi. Perciò ci sono commesse che ci stanno e dicono pure grazie per non finire come la collega, senza lavoro anziché mille euro in meno al mese.
E poi c'è la storia dell'elettricista, che avrebbe anche lavorato a quelle condizioni. Guadagnava 800 euro in meno dei suoi colleghi di Ginevra, ma almeno lavorava. L'ispettorato del lavoro ha notato la disparità, l'ha contestata e il povero elettricista è rimasto a casa perché, trattato come gli altri, sarebbe costato troppo al suo titolare.
Ora, vista l'aria che tira, il lavoro è un lusso. Lavorare è un privilegio. Le commesse italiane nei negozi svizzeri sono messe male, ma le commesse o le parrucchiere che lavorano in tanti centri commerciali italiani non sono messe meglio. Di sicuro guadagnano meno. Magari non vengono licenziate con la stessa facilità. La rumena o la marocchina ricevono lo stesso identico trattamento dell'italiana (sempre che vengano assunte). Ma le domeniche e gli straordinari vengono pagati quasi come i giorni normali. Loro, però, stanno zitte e si adeguano. Perché in questo momento è l'unica cosa da fare, adeguarsi. Con il coraggio si finisce per trovarsi senza lavoro. con la paura, si resta al proprio posto. Ma con la paura non si va da nessuna parte. Basta leggere "The help", l'aiuto, di Kathryn Stockett che racconta la storia di tante "mami". Soggiogate dalle loro giovani padroni bianche, fanno i mestieri di casa e curano i loro figli. Solo quando si arriva ai bagni separati, inizia la ribellione. Ma perché la parte emarginata si ribelli, c'è bisogno di un aiuto da un elemento della parte forte. Le commesse italiane hanno bisogno di una mano. E la mano, come il libro insegna, gliela deve dare uno svizzero.
Anna Savini
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