Bersani
e Renzi
Questione
di giacche

La principale differenza tra Bersani e Renzi sta nella giacca. Nel faccia a faccia televisivo il primo indossava una giacca blu, il secondo era senza giacca e con le maniche arrotolate sull'avambraccio. Parlava Renzi mostrando la camicia bianca, su cui spiccava una cravatta blu, mentre Bersani replicava con una cravatta rossa a pois, anche lui in camicia bianca. L'abito fa il monaco, bisognerebbe dire, rovesciando un vecchio proverbio. Per capire cosa ci comunicano i due contendenti delle primarie del Pd bisogna dunque partire dal linguaggio del corpo.
Molti ricorderanno il manifesto in cui il segretario del Partito democratico si presentava con le maniche arrotolate sopra il gomito, un chiaro messaggio sul «fare», che connota il pragmatismo politico emiliano, un gesto che ricorda il mondo contadino; anche Renzi si arrotola le maniche, come l'altra sera in televisione, però nello stile manageriale, che esprime sì pragmatismo, ma anche informalità e al tempo stesso efficienza. Senza dubbio una postura e un abbigliamento più moderno di quello di Bersani, diciamo: giovanile. Come hanno rilevato diversi osservatori, Renzi si atteggia da leader americano, ricorda, o vuole ricordare, Kennedy e la sua informalità, che nell'America degli anni sessanta fu una vera novità. Per apparire più telegenico nella serata del confronto, ha anche cambiato il taglio dei capelli, togliendo il semi-ciuffo solito a vantaggio di una pettinatura che gli scopre la fronte e gli conferisce un'aura di maggior giovinezza. Appare più ordinato, là dove il burbero, ma gioviale, Bersani non può opporre che una calvizie portata quale segno di saggezza. Il suo viso, così contadino, rimanda, infatti, a quell'Italia provinciale che conosciamo bene, fatta di serietà, costanza, lavoro, piedi ben piantati per terra. Che il suo stigma sia il provincialismo, matrice positiva dell'Italia-che-fa, lo si era capito subito, dal discorso di Bettola, il suo paese natale, all'inizio della campagna, con quel richiamo alle radici, alla pompa di benzina del padre. Il paese con la sua piazza, la chiesa, il municipio, il bar e l'osteria, i luoghi di ritrovo tradizionali, dove ci s'incontra, si prega, si fa politica e si discute. Questo il background di Bersani, un'Italia che esiste ancora, ma che è stata erosa e messa in crisi dai centri commerciali, dagli ipermercati, dagli scatoloni dell'Ikea, dal consumo di massa e dalle trasformazioni culturali generate dalla televisione commerciale di Berlusconi, dai nuovi modelli di comportamento economico, religioso, politico e persino sessuale. Il segretario del Pd, aspirante presidente del Consiglio di un ipotetico governo del centrosinistra, si richiama a queste radici, al Paese reale e in questo guarda al passato, come se non fossero trascorsi almeno tre decenni di berlusconismo culturale, prima che ancora politico. Il berlusconismo, con trasmissioni come «Colpo grosso» e «Drive In», «Striscia la notizia» e «Il Grande Fratello», ha modificato l'antropologia stessa degli italiani; il berlusconismo, come mostra il recente film di Matteo Garrone «Reality», ambientato non a caso a Napoli, là dove, ancora a metà degli anni settanta, secondo Pasolini, c'era ancora il Popolo con la maiuscola.
Matteo Renzi, come evidenziano i suoi gesti e gli abiti, prima ancora delle parole che ha detto nel confronto su Raiuno, è un politico post-televisivo, non solo perché da ragazzo ha partecipato e vinto una discreta somma di denaro alla trasmissione di Mike Bongiorno, «La ruota della fortuna» nel 1994, ma perché la sua proposta di rinnovamento politico – la rottamazione dei vecchi dirigenti di partito – nasce direttamente da quel mondo che ha partorito «Carosello», e nel passato remoto persino «Lascia e raddoppia».
La televisione in Italia è ufficialmente iniziata nel 1954, ma è solo la generazione nata alla fine degli anni settanta che ha incarnato compiutamente questa trasformazione culturale, per cui il piccolo schermo è il centro irradiante d'immagini, parole, idee e comportamenti, in concorrenza spietata con le vecchie e solide centrali culturali e di vita che erano la scuola e la Chiesa. Con un ritardo di almeno un decennio, o forse più – l'Italia è un Paese a un tempo in ritardo e in anticipo, come ha mostrato il fenomeno Berlusconi –, Renzi porta nei palazzi della politica quella generazione, per altro già incalzata dalla seguente che con una formula siamo abituati a definire i «nativi digitali».
Il suo tempo di leader politico è questo, e se non si afferma entro breve, sia come individuo sia come generazione, ce n'è già un'altra che preme alle sue spalle. Quale Italia incarna Renzi? Quella che avrebbe voluto, o potuto, affermarsi con Berlusconi, se fosse stato davvero un politico e non fosse stato travolto dal suo conflitto d'interessi di imprenditore televisivo, l'Italia della post-modernità, una forma di liberismo moderato, per cui il sindaco di Firenze appare come la reincarnazione italiana di Tony Blair in versione cattolica. Possibile? L'Italia è un Paese sorprendente, capace di formule politiche e soluzioni pratiche inconsuete, spesso imprevedibili e inattese. Renzi si propone come il «nuovo», come il «giovane», là dove invece Bersani, sfoderando proverbi e detti contadini, manifesta invece la sua natura paterna: un padre non autoritario, non severo, bensì giusto e saggio.
Sono due generazioni a confronto, ma anche due idee dell'Italia completamente opposte. Forse non è un caso che i due principali collaboratori dei due leader del Pd, Giorgio Gori per Renzi e Miguel Gotor per Bersani, i due spin doctor dei candidati delle primarie, manifestino con la loro biografia queste due idee diverse del Paese passato e futuro. Gori è l'uomo della televisione berlusconiana, fondatore di una società televisiva, «Magnolia», produttrice dell'«Isola dei famosi»; Gotor è invece un intellettuale, uno storico, studioso delle lettere di Aldo Moro, autore di un libro, «Il memoriale della Repubblica» (Einaudi), che ripercorre le vicende del potere democristiano e la fine del compromesso storico.
Uno strano chiasmo, dove il «cattolico» Renzi si trova a incontrare l'eredità berlusconiana, e il «comunista» Bersani a guardare ai valori della tradizione, compresi diversi aspetti del cattolicesimo sociale e politico. Il vero problema è semmai come potrà il vincitore delle primarie governare sia il suo partito sia un Paese (ammesso e non concesso che vinca le elezioni politiche) così complesso e stratificato come il nostro. Sono due metà opposte e complementari, Renzi e Bersani, e non si vede per il momento la possibilità di una sintesi. Un'incognita tra passato contadino e futuro post-moderno.
Marco Belpoliti

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