L'economia italiana non si riprenderà presto. Non per l'andamento della congiuntura mondiale o per qualche misterioso complotto della finanza internazionale, ma perché gli italiani non lo vogliono. Forse lo desiderano, ma non sono disposti a fare neanche una parte di quello che sarebbe necessario per un vero rilancio del sistema. Si illudono ancora che la crisi passerà da sola, che un giorno si sveglieranno e sarà tutto passato, come se fosse stato solo un brutto sogno. Invece le crisi si superano mettendo in campo energie, idee nuove e rinnovato impegno, soprattutto correggendo gli errori e gli eccessi che l'hanno causata. Ma da noi non si vede neanche un pallido segnale di questa inversione di rotta. E non è solo una questione politica ma anche e soprattutto sociale. Emblematicamente, il rinnovamento non si vede fra i protagonisti della politica. Il centrosinistra ha tenuto le sue primarie e ha confermato il leader precedente. È legittimo, ovviamente, ma resta nel segno della continuità. Il centrodestra non ci prova nemmeno e così la prossima campagna elettorale vedrà ancora le solite facce.
Ma sbaglieremmo a scaricare sulla politica tutta la responsabilità dell'immobilismo involutivo che ci attanaglia. La verità scomoda è che noi italiani non vogliamo cambiare. Non siamo disposti a metterci in gioco, a rivedere il nostro modo di essere e di vivere, a rinunciare a nulla di quello (tanto) che abbiamo. C'è una resistenza enorme, forse invincibile, ai pur modesti cambiamenti che il governo Monti aveva cercato di introdurre. Puntualmente il Parlamento ne ha depotenziato le proposte bloccando o annacquando i decreti che già scontavano le limitazioni del difficile compromesso con le parti coinvolte.
Ma proprio qui sta il punto: il Parlamento esprime quel coacervo di interessi particolari che riescono sempre a impedire la modernizzazione del Paese. Qualunque piccola situazione si voglia modificare, si incontra sempre la resistenza di qualche lobby che a sua volta trova una sponda parlamentare che la difende.
E la politica, anziché educare verso la responsabilità individuale, sembra volersi solo fare garante della selva di piccoli vantaggi che si è stratificata nei decenni del debito pubblico facile. Ecco il rapporto nefasto: i cittadini sono per la conservazione dello status quo e la politica li appoggia; la politica promette benefici irrealistici, come l'abolizione dell'Ici, e i cittadini la votano. A volte ci consoliamo con l'idea che il Paese sia meglio della politica, ma sotto sotto non è così. Non c'è lo slancio a ricostruire, a riattivare i meccanismo del merito, della sana competizione, ma si alimenta ancora l'idea che sia lo Stato che deve darci il lavoro, la sicurezza, la salute. Non c'è una presa di distanza dalle idee e dalle politiche sbagliate che hanno originato la crisi. E finche non cambieremo strada non ci sarà alcun miglioramento duraturo, neanche quando il resto del mondo si rimetterà in sesto.
Mario Comana
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