Il 25 novembre 1980 al Superdome di New Orleans, Roberto Duran, durante un'indimenticabile ottava ripresa, voltò all'improvviso le spalle al suo sfidante per il titolo mondiale dei welter, Sugar Ray Leonard, e pronunciò quella frase che è rimasta scolpita nella mitologia del mondo della boxe: "No mas".
Basta. Il grande combattente, uno dei pugili più devastanti della storia di quello sport, lo spietato "Mano di Pietra" aveva capito, dopo essere stato irriso per sette round dalla velocità e dal talento di quel formidabile rivale, che il suo tempo era finito. La ruota girata.
L'attimo fuggito. La presunzione - così cieca, così umana - di essere per sempre il più forte di tutti sbriciolata dal ciclo della vita. Poi, Duran si ostinò ottusamente a combattere ancora e vinse e perse e riuscì a diventare di nuovo campione. Ma la sua carriera, la sua carriera da atleta vero, da fuoriclasse del ring finì in quel momento. Non ci sono incontri per i vecchi pugili.
Al momento del distacco non può sfuggire nessuno, a prescindere dal grado raggiunto nella scala sportiva, sociale o economica: l'unica salvezza per noi poveri uomini è saper uscire di scena con un minimo di dignità, perché a una persona che ha superato il guado si può perdonare tutto, fuorché il diventare una macchietta. Silvio Berlusconi non è riuscito a evitare questa trappola. I pochi giorni intercorsi tra la sua ridiscesa in campo e l'umiliazione infertagli alla riunione dei leader del centrodestra europeo dal ferocissimo Mario Monti - un signore in loden che gronda bon ton da tutti gli artigli - sono stati davvero penosi. Non solo per lui e per i suoi sempre più improbabili supporter. Ma anche per tutti i detrattori che abbiano però la sensibilità di andare oltre l'odio ideologico o personale per cogliere in questo declino - culminato nella tragicomica conferenza stampa durante la quale in pochi minuti ha incoronato tre o quattro leader, compreso se stesso, alla guida del centrodestra - un dato metaforico, pedagogico, scespiriano sull'incapacità degli esseri umani di accettare la fine delle cose.
Ora, è vero che molti commentatori hanno letto dietro questa pervicacia di Berlusconi nel non mollare la presa una mera difesa degli interessi personali e aziendali, la volontà di bloccare il decorso delle sue molteplici cause giudiziarie e di condizionare in ogni modo, anche perdendo le elezioni, l'operato del prossimo esecutivo. Ma non è tutto qui. La verità è che lui per tanti anni ha avuto talento, ma, per quanto doloroso possa essere, il talento non dura. E il suo momento sta per finire. Ecco: il suo dramma consiste nel non accettare, visto che è sempre stato abituato a sedurre, vincere e comandare, questa semplice verità.
Quanti esempi abbiamo - e non solo nella politica, nell'alta finanza o nel mondo dello spettacolo - di gente che si aggrappa alla poltrona, allo strapuntino, al microincarico o anche più semplicemente a un'abitudine, una finta certezza, una persona, una causa, un'icona? Quante volte ci è capitato di rifiutare la spietatezza della macina degli anni preferendo star lì imbambolati a vagheggiare i bei tempi andati del liceo e delle vacanze in Spagna e del militare in Alto Adige e dell'ufficio che quando lo dirigevi tu era un po' tutta un'altra cosa e amori eterni e amicizie incorrotte e ricordi indelebili e inesauste aspirazioni e la convinzione di essere sempre e poi sempre importanti e centrali e indispensabili? I cimiteri sono pieni di gente indispensabile, ma ci fosse una volta che ce lo ricordiamo… È questo l'errore più grande del cavaliere. Credere di essere l'unico a poter fare le cose e, quindi, essere certo che dopo di lui non potrà che venire il diluvio. Cortocircuito tipico non solo dei megalomani, ma anche dei grandi protagonisti - politici, finanzieri, artisti e pure direttori di giornali - che considerano prova della loro grandezza il fatto che con loro le cose andavano bene e male invece senza. È vero il contrario. Quello è il segno della loro piccolezza: uno è un grande leader quando la sua creatura cresce benissimo anche senza di lui, e forse addirittura meglio, perché questo significa che ha avuto la lungimiranza di costruire giorno dopo giorno gli uomini destinati a sostituirlo. Se invece uno passa i giorni ad azzoppare chi teme che in futuro possa fargli ombra sarà anche un grande condottiero, ma mai un vero capo. Un vero riferimento. Un vero statista.
Ed è così che è andata. Un unico Dio, un unico Moloch, un unico Monolito di fronte al quale tutti gli adepti e gli adulatori e le sacerdotesse dovevano inchinarsi. Al di fuori di quello, il deserto. Servi, sguatteri, salmerie. Ma il problema è che il tempo passa, il vento fa il suo giro, la fine è livida e arriverà un giorno in cui tu non ci sarai più e di te non resterà alcuna memoria, come se addirittura non fossi mai esistito. Chi se ne convince è un saggio, chi preferisce il cerone e il fondotinta diventa un fantoccio come il povero Roberto Duran, che dopo quel gran rifiuto iniziò a mangiare, a bere, a ingrassare, a farsi tormentare giorno e notte dal suo demone e andò avanti a prendere pugni in faccia fino a quarant'anni da gente di cui una volta avrebbe fatto polpette. Un pugile suonato, come il tragico Gassman dei Mostri.
Allo stesso modo anche Berlusconi si è incapricciato, si è intestardito, ha iniziato a inseguire il fantasma del suo mito tra comizi, festini e comparsate così come il professor Aschenbach agognava - patetico e grottesco - il suo angelico Tadzio nelle pagine di "Morte a Venezia". Perché pure lui pensava che fosse sufficiente una tintura di capelli per fissare il tempo che passa in un'immagine perfetta. E invece non è così: basta un battito di ciglia e la tua claque non c'è più, sparita all'improvviso come un fantasma al canto del gallo.
Diego Minonzio
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