Alla fine della seconda guerra mondiale, Theodor Adorno disse che dopo Auschwitz non era più possibile scrivere poesie. Sarebbe stata una barbarie ricominciare come se niente fosse accaduto. Ma aveva torto. Di poesie si è continuato a scriverne. E generalmente di pessime, oltretutto.
Allo stesso modo, siamo noi a sbagliare quando affermiamo che dopo ogni grande evento che ha segnato anche quest'anno che sta svanendo, nulla potrà più essere come prima, perché da quel momento le nostre vite sono cambiate per sempre. Sarà. Ma basta ripensare al melmoso tran tran che ci ha avvolto nelle sue lunghe spire in questo 2012 alla faccia di recessioni globali, terremoti, naufragi e stragi di bimbi a scuola raccontati con ansia e morbosità da noi pennivendoli per convincersi del contrario. Cinismo? Decadenza dei costumi? Disperato bisogno di evasione dalla morsa della noia? Forse anche un pizzico di tutto questo, certo, ma soprattutto la conferma di quanto la vita degli esseri umani corra su binari estranei e misteriosi rispetto a quelli sui quali sferraglia la locomotiva della storia, che nei suoi periodici deragliamenti può lasciare senza fiato, ma senza mai diventare decisiva per la tua esistenza.
Quante volte pure quest'anno ci siamo ripetuti che dopo quel fatto tragico il nostro rapporto con tutto il resto sarebbe cambiato? A caldo, travolti dalla tempesta delle emozioni, ne eravamo certi. Eppure, se in qualsiasi momento provassimo a domandare a una qualsiasi persona di una qualsiasi età, razza, cultura e ceto quali sono i tre momenti indimenticabili che nel bene e nel male hanno segnato la sua esistenza - quei momenti dopo i quali la vita diventa un'altra cosa - nessuno, ma proprio nessuno, neanche il più pensoso degli intellettuali, citerebbe un grande evento planetario. Pensiamoci un attimo. I traumi, le fratture, gli choc che ci strozzano lo stomaco e ci spaccano il cervello spingendolo su sentieri mai battuti prima sono sempre legati a fatti banali, dozzinali, comuni nella loro bellezza - il germogliare del primo amore, la nascita di un figlio, la commozione per un amico ritrovato - o spietatamente quotidiani e prevedibili nella loro ineluttabilità - lo spegnersi dello sguardo di tua madre, il tradimento di chi pensavi fosse parte di te, l'eco di una voce che si allontana nella notte e che inspiegabilmente ti stringe il cuore. E' poco, è molto poco, è addirittura risibile rispetto ai veri drammi che segnano la storia che conta. Ma per noi è tutto. Questo è il punto decisivo. Ed è proprio per questo che, una volta passata l'emozione del momento, qualsiasi Grande Notizia del 2012 scritta sui giornali ci sembra già così lontana.
Certo, ci piacerebbe sentirci parte del gorgo immenso della storia che accade dentro il tempo che passa perché così facendo il nostro comune sentire, la nostra identificazione con gli altri esseri umani sarebbe totale. Bello, vero? Ma, oltre al turbamento, alla più calda solidarietà e alle umanissime fiammate di panico non riusciamo ad andare. Poi, inevitabile, scatta la reazione spietata ma rivelatrice che nei bar, nelle strade, sul treno - e nelle redazioni - segna la morte di qualsiasi notizia: "Ancora il killer dei bambini? Uff, che noia…".
Forse perché siamo vili, forse perché siamo distratti da una quotidianità assediata da crucci e scadenze, ed è così perché siamo anche un po' vigliacchi e infantili, ma forse solo perché dentro di noi a un certo punto scatta un meccanismo genetico, un atavico processo di rimozione che ci impedisce di andare anche solo un centimetro al di là del nostro mondo, del nostro territorio, del nostro habitat. Un piccolo universo popolato solo da noi stessi, dalla nostra famiglia, dalle persone che amiamo, dai luoghi nei quali viviamo. Un universo all'interno del quale si gioca tutta la nostra partita su questa terra.
Sarà triste dirlo, però anche se sono passati duemila anni e sappiamo tutto e andiamo ovunque sulla rete e sentiamo il globo pulsarci tra le dita, alla fine siamo ancora quelli di sempre. Terrorizzati che i nostri ragazzi possano farsi male in motorino, oppressi dalla certezza che dopo i quaranta cancro e infarto non siano più una casualità, rassegnati a combattere giorno dopo giorno con le bollette, la mediocrità, le occasioni perse, i fiori mai colti. E allora è solo quando la storia ti precipita sulla testa sfasciando il tuo piccolo bunker che la tragedia planetaria diventa anche la tua tragedia. Altrimenti, dopo un po', il dito inizia a prudere sul telecomando alla ricerca della diretta gol di Sky.
Come abbiamo potuto vivere dopo i lager e i gulag? Come abbiamo potuto passare mezzo secolo pensando solo ad arricchirci? Come possiamo pensare al calciomercato con milioni di persone che muoiono di fame? Domande senza risposta. Interrogativi inutili. Sovrastrutture. Cornici. Contorni. Perché tutto questo non accade a te, è lontano, è altro rispetto al flusso sotterraneo della vita profonda di noi uomini comuni, una vita per la quale gli avvenimenti non contano nulla e quesiti di quel tipo non hanno significato.
La verità è che siamo come i contadinotti ignoranti di Manzoni, sballottati qua e là dal vento di una storia che non conoscono e non capiscono e ai quali resta solo la consolazione dell'abbandono tra le braccia misteriose della Provvidenza. E se è così, allora ci restano solo le piccole cose, gli affetti più veri, le persone - vecchie e nuove - a cui vogliamo veramente bene e che danno un senso alla nostra esistenza. Pensiamo a loro, in questo anno che arriva che sarà schifoso e tragico come quelli che lo hanno preceduto e quelli che lo seguiranno, e doniamo loro almeno una piccola prova d'amore. Allora sarà tutto compiuto. Perché ci rimarrà la consolazione - patetica, ma dolcissima - che molti anni dopo, quando vagheremo rimbambiti per i giardini di Villa Serena o riposeremo finalmente in pace sotto sei piedi di terra, quelle persone si ricorderanno di quel remoto pomeriggio in cui gli abbiamo offerto il meglio di noi.
Diego Minonzio
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