Non c'è infatti domenica senza lo strascico di polemiche sulle interpretazioni degli arbitri, che nella tal occasione hanno giudicato un fallo in area volontario, con tanto di rigore ed espulsione, e nell'altra hanno mandato tutti assolti, perché sì colpevoli, ma di un gesto non voluto e deliberato. Peccato che lo stesso problema sembri attraversare le aule dei Tribunale, quando si parla del libero convincimento dell'arbitro, pardon, del Giudice. L'articolo 192 del codice di procedura penale riporta, al comma uno: «Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati»; e prosegue, con il comma due: «L'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi, a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti».
Detta così, la questione non parrebbe complessa, peccato che la storia recente ci abbia abituato a non capir più nulla, proprio come accade con l'operato dei "fischietti". Giudicare non è semplice, e nei processi indiziari lo è ancor meno. Ma i ribaltamenti e le difformità di giudizio hanno raggiunto livelli allarmanti, tanto da far credere che la prima sentenza conti poco, che sia condizionata dall'emozione, quasi come un gol a freddo: c'è tutto il tempo di recuperare nella seconda frazione.
Sempre che l'arbitro non sia condizionato, non certo comprato ma vittima di una qualche sudditanza psicologica. Succede allora che la sua determinazione rischi d'essere meno libera e più indirizzata, proprio come quella di un giudice quando incappa nei cosiddetti "bias", vere e proprie scorciatoie di pensiero di cui non si ha consapevolezza, ma che orientano le valutazioni. Si tratta di pre-giudizi, vale a dire giudizi legati alla nostra esperienza passata, al modo con cui ricordiamo le cose, selezionandone alcune come più pregnanti e valide di altre.
Non conosco personalmente il giudice che ha condannato Salvatore Parolisi, ma in un passaggio delle sue motivazioni, a proposito dello stesso, scrive «…nel tentativo di allontanare i sospetti che lo vedevano come il maggior indiziato per il delitto di Melania, ha fornito una mole di menzogne che, inconsapevolmente, se valutate unitamente a tutti gli altri elementi raccolti, hanno costituito una sorta di confessione, offrendo al giudicante una chiave di lettura che ha consentito di ricostruire la dinamica dell'accaduto, il movente e l'effettiva personalità di un uomo che ha vissuto e vive una propria realtà, che prende spunto dal vero, lo rielabora e, quindi, lo eleva a verità, tanto da essersi già assolto dai terribili delitti commessi…».
Una sentenza, quella contro il militare abruzzese, che rischia d'essere ribaltata in Appello. Basti pensare che non solo gli avvocati difensori la contestano (ed è normale), ma pure i legali di parte civile sono in difficoltà, avendo proposto in dibattimento una dinamica dei fatti del tutto diversa.
Se avete trovato azzardato il ricorso alla metafora calcistica, ve ne chiedo scusa. Si è trattato di un semplice artificio narrativo.
Una donna assassinata, una bimba senza madre e un uomo in carcere, non sono certo un gioco.
Massimo Picozzi
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