In politica, il cuore ha i suoi interessi che l'interesse non conosce. In questa campagna elettorale, si parla molto di donne e di giovani come vera “emergenza” del Paese.
L'occupazione femminile, in Italia, è inferiore ai valori di altri Stati europei (a dire il vero, al Nord però i tassi di occupazione non sono troppo diversi da quelli di Germania e Inghilterra). La disoccupazione giovanile è in crescita. Soprattutto, ci sono nel nostro Paese oltre due milioni di “neet” (Not in Education, Employment or Training): giovani cioè che non lavorano né studiano.
Viene rilevato come, se il tasso d'occupazione femminile fosse pari a quello maschile, il Pil italiano sarebbe di almeno quindici punti superiore. Il ragionamento non è scorretto. L'economia non è una torta che non ci resta che dividere in fette. Se si cresce si è in condizione di creare occupazione: e con la marea, si alzano tutte le barche. Più posti di lavoro per le donne non significano meno posti di lavoro per gli uomini.
I problemi specifici delle donne sono legati al portato di una cultura che le ha relegate, per secoli, ai margini del mondo della produzione. Oggi quei tabù sono perlopiù caduti. In assenza di condizionamenti profondi, le imprese non assumono per affermare un principio di natura politica, ma perché conviene loro. L'interesse di chi sta “dentro” il sistema è proteggere ciò che ha già: per esempio attraverso il contratto collettivo nazionale che, stabilendo un modello standard per una data occupazione, rende più arduo competere per chi potrebbe e vorrebbe offrire condizioni diverse. Più un contratto è assieme standardizzato e dettagliato, e quindi slegato dalle circostanze concrete di una singola azienda, e più difficile diventa “adattarlo” a condizioni particolari.
Le donne avrebbero interesse a scardinare questo modello, perché sono il gruppo che più potrebbe trarre vantaggio da condizioni di lavoro flessibili (dai part time a congedi di maternità che facilitino un'uscita e un ritorno più fluido alle loro mansioni). Invece chi vuole più occupazione femminile di solito difende un sistema pensato a vantaggio di una forza lavoro molto omogenea e molto “maschile”. Le donne, che hanno peso minore nelle diverse categorie professionali, dovrebbero mobilitarsi per abbassare, non per alzare, le barriere all'ingresso.
Per i giovani, in parte il discorso è diverso. Più occupazione femminile significa anche superare pregiudizi che abbiamo ereditato. L'elevata disoccupazione giovanile è invece in larga misura figlia di un contesto culturale costruito negli ultimi quarant'anni. Ritardare l'ingresso nel mercato del lavoro è in parte un segnale di progresso economico: possiamo permetterci di fare studiare più a lungo i nostri figli. Ma è pure, in Italia, il riflesso di un sistema formativo che non forma e che è sempre più impacciato nel trasmettere quelle competenze che sono necessarie per essere “occupabili”.
Sulla scorsa di quanto fatto per le donne, qualcuno ora parla di quote giovani: l'idea è quella di riservare, per legge, un certo numero di “posti” nei consigli d'amministrazione di enti pubblici e imprese quotate a persone che hanno meno di quarant'anni. Così si combatterebbe la “gerontocrazia” italiana.
Il consiglio di amministrazione di un'impresa è un organo che i suoi azionisti (i suoi proprietari) nominano appunto per amministrarla, affiancando e controllando i suoi dirigenti. C'è una delega, un rapporto di fiducia. I proprietari di uno stabile si accordano su chi scegliere come custode. Riterremmo aberrante, giustamente, che lo Stato imponesse a costoro di scegliere il custode non fra le persone di cui si fidano, ma fra persone con determinate caratteristiche (sesso, età, eccetera).
Un Paese che cresce, e che crescendo può dare maggiori opportunità a giovani e donne, è un Paese in cui si investe. Un Paese in cui si investe è un Paese nel quale il diritto di proprietà non è messo in discussione - e non viene sacrificato a cuor leggere a questo o quell'obiettivo, ritenuto meritevole dalla classe politica in un dato momento.
Chi si trova ai margini del mercato del lavoro ha bisogno di un'Italia che cresca e che non restringa artificialmente la platea di beneficiari della crescita. La sfida è infornare una torta più grossa, non litigarsi le briciole.
Alberto Mingardi
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