Questa ricerca di un team di scienziati irlandesi, pubblicata dal "Journal of Experimental Biology" e ripresa con svariati articoli di colore dai media italiani induce istintivamente al sorriso e a qualche sapida facezia - una bella cucchiaiata di maionese e il problema è risolto! - che aiuti a smontare le ire insopportabili e arruffate di qualche talebano animalista. Poi, però, fa riflettere. Il dolore non ha confini, non è una maledizione connaturata solo a noi specie eletta, ma pervade invece ogni angolo, compreso quello più insulso, dell'esistenza. Anche perché la tesi in vigore fino ad oggi, e cioè che l'aragosta ha un cervellino così minuscolo che le impedisce di provare alcuna emozione, è risibile. Se così fosse, guardatevi un po' in giro, la metà del genere umano si troverebbe nelle stesse condizioni. E invece non è così. Non è necessario essere laureati alla Normale per sentirsi bruciare addosso il marchio della sofferenza. Il dolore è una livella.
Questa è una notizia altamente pedagogica, che contiene risvolti ben più profondi della trita polemica tra carnivori e vegetariani, delle ridicole pasionarie dei nostri amici animali che usano i nostri amici animali per farsi pubblicità gratis senza che gliene importi un fico secco dei nostri amici animali, delle anime belle sempre pronte a fare del bene, dei drammi esistenziali degli chef dal cuore tenero e dei farisei che riservano lacrime copiose per i cuccioli abbandonati e sovrani chissenefrega per i disperati che dormono in mezzo ai cartoni. Anche perché, sia chiaro, a parere di chi scrive l'astice è buonissimo, soprattutto alla catalana.
La cognizione del dolore, di un dolore in questo caso veramente universale, ci obbliga a uscir fuori dal nostro nido, dalla nostra morale ipocrita secondo la quale le cose diventano importanti solo quando ci toccano di persona per poi scemare via via quando si scala dal legame affettivo, familiare a quello di vicinato e poi a quello di mera frequentazione lavorativa e poi a quello di semplice conoscenza per infine digradare ancora dagli esseri umani agli animali da compagnia o a quelli che una vastissima letteratura caramellosa ci ha indotto a umanizzare a dismisura (i bambi, i delfini, le lucciole, i cavalli, i panda…). Loro sì che soffrono, esattamente come noi, perché premiati da una condizione superiore, da uno status di privilegiati. E a questi sì che va la nostra accorata comprensione. Il resto, gamberi inclusi, non conta. Non esiste.
Questa ricerca, ma chi vede un po' più lungo non ne aveva bisogno, dimostra l'esatto contrario. Il dolore non è un accidente casuale ma, invece, il sale del mondo, che tutto occupa, tutto pervade e tutto identifica, dal tormentato uomo di lettere all'ultima delle formiche indaffarate in quel giardino che Leopardi ha descritto con parole terribili e disperate. E se è così, siamo proprio obbligati a trovargli un senso.
Forse è questa la lezione, il segno più solido di speranza. Se è vero che gli uomini danno il meglio di sé nei momenti di sofferenza - quanto meraviglioso, ma anche ottuso, cieco, oltre che rarissimo, è lo stato di felicità - beh, allora, quando ci capita di sentirne il morso, utilizziamolo per ricordarci che questo riguarda tutti e per fare in modo di non arrecarne inutilmente agli altri. Basta poco per far soffrire qualcuno. Una parola non detta, un gesto di attenzione che non arriva mai, una dimenticanza, una parola brusca, un'inutile maldicenza, le solite piccinerie, le solite grettezze da uomini meschini, quel cinismo da quattro soldi e, soprattutto, la nostra spaventosa inclinazione a prendersela sempre con gli indifesi, a seguire la logica schifosa del calcio dell'asino. Se, come dicono, siamo polvere, ma polvere di stelle, non dovrebbe essere poi così difficile capirlo. Tutti abbiamo un dolore, perché non possiamo condividerlo?
Dovremmo fare come il Curzio Malaparte de "La pelle" che, in una delle pagine più commoventi della storia della letteratura italiana, tutta dedicata al rapporto tra uomo e animale e alla solidarietà più sincera verso chi soffre, racconta la morte di un cane rubato al suo padrone e finito sui tavoli del reparto vivisezione - l'orrore assoluto - di una clinica universitaria: "Era disteso sul dorso, il ventre aperto, una sonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, e gli occhi aveva pieni di lacrime. Aveva nello sguardo una meravigliosa dolcezza. Non mandava un gemito, respirava lievemente, con la bocca socchiusa, scosso da un tremito orribile. "Febo" dissi a voce bassa. E Febo mi guardava con una meravigliosa dolcezza negli occhi. Io vidi Cristo in lui, vidi Cristo in lui crocifisso, vidi Cristo che mi guardava con gli occhi pieni di una dolcezza meravigliosa. "Febo", dissi a voce bassa, curvandomi su di lui, accarezzandogli la fronte. Febo mi baciò la mano e non emise un gemito… A un tratto un grido di spavento mi ruppe il petto: "Perché questo silenzio?, gridai, "che è questo silenzio?" Era un silenzio orribile. Un silenzio immenso, gelido, morto, un silenzio di neve. Il medico mi si avvicinò con una siringa in mano: "Prima di operarli", disse, "gli tagliamo le corde vocali".
Diego Minonzio
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