È un cannibalismo culturale, un modo per dividersi il bottino d'idee che il divo apparecchia ogni volta sulla tavola dei sogni, e somigliargli un poco, magari nella parlata, nello sguardo, nella camminata.
Serve per uscire dall'anonimato, farsi vedere engagé oppure, più banalmente a rientrare nel branco di cui l'artista è la guida, diventare suoi adepti e portavoce del verbo tra parenti e amici.
Chi fa parte dello star system esce dalla porta della normale umanità, quella che si sveglia ingrugnita, fa la doccia gelata perché si è rotto il boiler, conta i centesimi per la spesa al supermercato, va a prendere a scuola da uno a tre bambini incarogniti dai videogiochi, deve pagare mutuo, rate della macchina del televisore del salotto nuovo, e infine la parcella dell'inevitabile psicologo. Il teatro, quindi il cinema e la televisione, hanno beatificato i loro protagonisti, togliendoli di colpo da un mondo sanguigno e arrembante e trasformandoli in entità astratte, quasi soprannaturali.
L'artista è immune dalle comuni contaminazioni, la spesa gliela fa la colf, il pranzo lo prepara lo chef, il segretario gli leva ogni burocratico incomodo e l'agente tiene lontani gli scocciatori. Forse non vive nemmeno sulla Terra.
L'artista non può salire su un métro, forse, nell'immaginario comune, gli è concesso un taxi tra un aeroporto e l'altro, non si mischia con la calca sudata nei vagoni, vola come Mary Poppins da un set all'altro e poi scompare, fino alla prossima paparazzata o al trailer del film che ha appena terminato di girare. Spesso diventa soltanto un volto e quando capita per uno scherzo del destino di vederselo davanti, lo si trova più basso più chiatto, quasi che il corpo sia di qualcun altro che ha combinato un dispetto, appropriandosi della celebre faccia e portandola impunemente in giro.
Così la malattia, improvvisa o devastante, provoca, prima della pietà, sorpresa, perché il divo in quei momenti è nudo, come quando è nato, e mentre la sua immagine gagliarda scorre ancora sullo schermo, il suo corpo è lontano e sofferente.
Molière stramazzò in scena, Antonio Petito, il più grande Pulcinella di sempre, si accasciò su una sedia dopo una recita per non rialzarsi più, Domenico Modugno crollò negli studi di Cologno Monzese colpito dal male.
Così Bruno Arena, il Fico d'India con la faccia più triste, ora è davvero in ospedale, malato tra i malati, non recita una parte e più che mai appartiene a tutti, come ha sempre voluto che fosse, e da uomo normale chiede alla vita di suggerirgli ancora una battuta.
di Mario Chiodetti
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