Avesse frequentato anche lui i dolci colli e la gentile razza senese dei banchieri rossi e dei funzionari di partito che prendono lo stipendio dal Monte dei Paschi, si sarebbe fatta un'idea più morbida, diciamo "in chiaroscuro" (più scuro che chiaro, in verità) dei complicati rapporti che possono intercorrere tra il denaro e gli (ex) comunisti. Ora arrivano le elezioni, che Bersani pensava di aver già vinto con la pompa di benzina del babbo in mano e il richiamo ai valori genuini di una volta, e invece scoppia lo scandalo di MPS, la banca rossa per antonomasia che rischia di essere travolta dai buchi neri della finanza derivata con cui per anni ha giocato il suo boss Giuseppe Mussari: uno che, per essere un manager indipendente da cui tutto il Pd ora prende le distanze, è un signore che ha versato a titolo personale al partito oltre mezzo milione di euro in dieci anni. Al netto di tutti i finanziamenti al Pd legalmente usciti dai forzieri della più antica banca del mondo. E di quelli che MPS e la sua Fondazione hanno garantito alle istituzioni territoriali - Comune, Provincia e quant'altro - dell'eterno feudo rosso.
Una trama complicata che metterebbe in imbarazzo anche Brecht, ma che ha i suoi perché. Il più inconfessabile e imbarazzante è l'attrazione fatale per il mondo della finanza degli ex comunisti che, caduto il Muro, si sono liberati in un batter d'occhio dell'antico tabù avverso al denaro. Ma capitalisti e banchieri non ci si inventa, e così tutte le volte che gli ex Pci hanno allungato le mani sul barattolo della marmellata ci hanno lasciato le dita. Cominciarono nel 1999, quando Max D'Alema stava a Palazzo Chigi e incautamente benedisse la scalata della "rude razza padana" di Roberto Colaninno a Telecom, svelando appetiti e disegni che dovevano restare sottotraccia. Erano gli anni in cui Alfredo Reichlin teorizzava la necessità di "una nuova alleanza tra i produttori" e D'Alema sognava di essere il Tony Blair italiano, pappa e ciccia con la globalizzazione. Furono così disinvolti nel mescolare politica e affari che si meritarono la sferzante battuta di Guido Rossi: "A Palazzo Chigi c'è l'unica merchant bank dove non si parla inglese". Poi arrivò la famosa intercettazione tra Fassino e Giovanni Consorte, il capo di Unipol e dava l'assalto a BNL: "E allora siamo padroni di una banca?", con quel che ne seguì.
Ora il Pd, dopo i guai della "rude razza padana", è costretto a fare i conti con quelli della raffinata razza senese. Il sistema aveva funzionato fin dai tempi all'antico Pci su quello schema "territoriale" che in realtà è stato comune a tutti i partiti. Però poi c'è stata un'accelerazione, il gusto di ingrandirsi e buttarsi in finanza. C'è stata la controversa acquisizione di Banca 121, istituto pugliese della galassia dalemiana. E soprattutto la disastrosa acquisizione di Antonveneta che ha portato MPS sull'orlo del crac. Nel Pd nessuno sapeva? Rosy Bindi, eletta a Siena per una vita, dice: "Non ho mai avuto voce nelle scelte della banca". C'è da crederle, i "bancari" del partito erano altri, ma fa impressione quanti esponenti del Pd facciano parte della razza "a mia insaputa". Qualche mese fa linciarono Matteo Renzi, reo di aver incontrato un finanziere attivo alle Cayman. Ma sui disastri di MPS, niente. Viene il dubbio che la vera colpa di Renzi sia di essere stato l'unico del Pd a parlare di finanza alla luce del sole.
"Meno male che la popolazione non capisce il nostro sistema bancario e monetario, altrimenti credo che prima di domani scoppierebbe una rivoluzione". No, questa non è di Bertolt Brecht: la disse Herny Ford, un bieco capitalista. Ma al confronto di certe anime belle del Pd, sembra un pericoloso comunista.
Maurizio Crippa
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