Al ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, che certo preferirebbe vedere ancora a palazzo Chigi il Professore, il segretario democratico accredita un partito rinnovato e a forte vocazione europeista, pronto a confermare una politica di rigore di bilancio in cambio di più investimenti e di più lavoro. La missione berlinese è dettata anche dalla necessità di sovvertire il trend dei sondaggi che vede una lenta erosione di consensi per il Pd a causa dello scandalo Monte dei Paschi. Si svolge a pochi giorni dall'analogo viaggio compiuto dal presidente del Consiglio e sembra disegnare una specie di staffetta europea per presentare in anteprima alla Germania un asse politico tra progressisti e moderati destinato a prendere corpo dopo il voto. Non a caso Monti ha prontamente risposto al segretario del Pd di essere disponibile ad alleanze per le riforme strutturali del Paese, ma ha spiegato che ciò sarà possibile o con una grande coalizione (un termine abbastanza ambiguo da poter comprendere anche uomini del Pdl) o con un governo di cui Scelta civica sia l'ossatura principale.
In altre parole, Monti non è intenzionato a risultare aggiuntivo in una coalizione Bersani-Vendola, anzi ribadisce indirettamente di considerarsi alternativo al governatore della Puglia. Così come fa, del resto, il leader di Sel. Ciò significa che il chiarimento ci deve ancora essere.
Come dice Dario Franceschini, i democratici ritengono che il guru di Obama abbia finito per cambiare i connotati del Professore, rendendolo irriconoscibile: troppo aggressivo e polemico con gli ex alleati fino al punto di rendere difficile un'intesa. In fondo sono critiche simili a quelle di Silvio Berlusconi che dice di non riconoscere più il Professore nominato senatore a vita con il consenso di tutti.
Eppure nel cambiamento del premier, che adesso si lascia andare anche a promesse di stampo berlusconiano (come quella di dimezzare il numero dei parlamentari nel primo Consiglio dei ministri, ben sapendo che questa è una modifica della Costituzione che può fare solo il Parlamento), c'è una logica precisa: quella di cercare un accordo alla pari per un governo che completi la sua agenda. Ora, è difficile che ciò possa accadere per libera scelta di Bersani. Più semplicemente i centristi, come spiega Gianfranco Fini, non vogliono allearsi con nessuno dei due schieramenti: se, come sembra possibile, il centrosinistra non riuscirà ad ottenere la maggioranza al Senato, si batteranno per un governo che realizzi quattro o cinque riforme chiave (legge elettorale, taglio dei parlamentari, riforme fiscali) per poi tornare al voto in un tempo ragionevole. Un «governo del Presidente» come dice Fini, dunque una sorta di Monti-bis, sotto la regia del Quirinale. Magari grazie a un Napolitano-bis.
Pierfrancesco Frerè
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