E infatti basta dare uno sguardo alla pagina Twitter del pontefice per capire che Socci ha ragione: insulti, insinuazioni, doppi sensi, battute sessiste, gag da caserma, volgarità di ogni ordine e grado, luoghi comuni da cabaret di serie C. Papa Ratzinger deriso dal primo ubriaco che passa. Un massacro.
Ora, il problema non sta tanto nella critica che Socci rivolge al Vaticano per aver ceduto alla filosofia secondo la quale "la Chiesa deve stare al passo con i tempi" - a suo avviso, la Chiesa deve stare "sopra" ai tempi - ma su quanto noi esseri umani qualsiasi abbiamo dimostrato anche in questa occasione di non saper gestire con oculatezza le invenzioni che cambiano il nostro rapporto con la realtà. Il nodo, quindi, non è il Papa e naturalmente nemmeno Twitter così come Facebook e il resto del ribollente mondo dei social media. Il problema siamo noi. Abbiamo in mano la nuova dinamite, la nuova bomba atomica della comunicazione e manco ce ne rendiamo conto, sbattacchiandola di qua e di là col rischio di far saltare tutto per aria. Sembra quasi che ci sfuggano le potenzialità enormi di un sistema di relazione con gli altri che cambia davvero ogni cosa e che noi invece continuiamo a infarcire dei soliti, insopportabili e prevedibilissimi contenuti.
Avventurarsi, da ingenui neofiti, in una piccola esplorazione della terra promessa del web è una roba da piangere: sintassi da analfabeti di ritorno, letteratura da stazione, poesiole copiaincollate da Wikipedia senza manco sapere chi sia l'autore, ricordi giovanili di cui non importa un bel niente a nessuno, massime di vita scaramellate via dai Baci Perugina, quella volta quando ero a militare, quell'altra quando andavamo al liceo e a quei tempi sì che ero giovane e scattante e te lo ricordi che ottuso che era il prof di biologia e le meravigliose vacanze in Costa Brava e i magic moments con il mio lui e chi non salta è Balotelli e il nuovo video di Vasco e gli uomini sono tutti dei maiali e le donne sono tutte quella roba là e il resto di quel pattume autobiografico che viene squadernato a destra e a manca quando invece una persona con un minimo di senso non tanto della decenza, ma almeno della vergogna, dovrebbe racchiuderlo dentro un clamoroso chissenefrega. E invece niente, tutti iscritti alla gara su chi è il più patetico della compagnia…
E non è una questione di quindicenni, che loro sì che ci si muovono, lì dentro, in maniera così sgrammaticata e impulsiva da far tenerezza, ma del tutto naturale. Pesci nella loro acqua. Il problema sono i loro genitori. È come se si fosse scatenata una sorta di rimbambimento generazionale, una specie di idolatria di Facebook come àncora di salvezza dalle spire della maturità dalle quali si cerca - grottescamente - di liberarsi. Gli esiti sono devastanti. Leggi di quelle cose sui profili di certi cinquantenni che ti viene voglia di buttarti giù dal balcone. Una regressione allo stato adolescenziale degna di uno studio antropologico, di un approccio junghiano, di una tesi di laurea. Almeno fino a qualche anno fa, le nostre sciocchezze da criceti lobotomizzati costretti a correre sulla ruota delle convenzioni ce le dicevamo al telefono. O sulla carta da lettere. Adesso è passato un liberi tutti che ci autorizza a far conoscere qualsiasi baggianata al mondo. Ansia di protagonismo? Sgorgatoio salvifico della mostruosa frustrazione che ogni essere umano accumula a casa, in ufficio e negli affetti? Bisogno disperato di amicizia, di gratificazione, di ascolto? È un vero mistero, anche toccante, se si vuole, ma se si pensa a come un adulto possa ridursi a strafalcionare due versi di Hikmet per far colpo, generalmente durante l'orario di lavoro, sulla segretaria farfallona, così come approfitti di Twitter per dare del pedofilo al Papa è una cosa che lascia senza parole. Ma perché siamo così?
Il mondo è pieno di cretini, si dirà, e non è il caso di generalizzare. Ma un'altra fola pericolosissima è pensare che la libertà stia nella licenza di dire tutto da parte di tutti. Non è così. Non è mai stato così. Perché l'animo umano quando si spalanca senza coscienza genera mostri e sciocchezze e si trasforma in un bue senza testa che si fa portare in giro dal primo accalappiatore che passa. L'onere della scelta, della decisione, del filtro, della gerarchia di una cosa importante rispetto a un'altra che non lo è non può mai essere dismesso.
E, naturalmente, il carico da novanta ce lo abbiamo messo noi giornalisti, straordinaria categoria che quando c'è da distorcere la verità a botte di egocentrismo è maestra senza eguali. Da quando si è sparsa la moda di Twitter è partito il delirio: non si va a letto tranquilli se non si è lanciata all'universo una qualche riflessione fondamentale sui destini dell'umanità tipo "Oggi giornata dura, vado a farmi un piatto di pasta" oppure "La crisi graffia, ma tutti insieme possiamo farcela". E via con un continuo commentare questo e quello, ovviamente in prima persona perché qui siamo tutti Montanelli e Malaparte incompresi. Poi dicono che la gente non legge più i giornali…
Socci chiudeva il suo articolo ricordando che la Chiesa deve parlare agli uomini dell'Eternità e non di Twitter. È un ragionamento che dovrebbe valere per tutti. Parliamo agli uomini di loro e non di Twitter. Quello è solo un mezzo - formidabile - ma solo un mezzo. Se i contenuti rimangono quella brodaglia di luoghi comuni e volgarità di cui impastiamo le nostre giornate non c'è tweet o post che ci possa salvare dal nulla al quale siamo inesorabilmente destinati.
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