Dati definitivi a parte, alcuni elementi sono comunque chiari e acclarati: alla fine hanno vinto, ovviamente, Grillo e di nuovo... il Cavaliere. Dall'altra parte, di fatto, hanno perso Bersani e il premier uscente Mario Monti.
Che il leader del Pd, partito dato fino a tarda ora avanti nei consensi assoluti sia a Montecitorio che a Palazzo Madama (dove però si "pesano" esclusivamente le maggioranze regionali), sia da arruolare tra i perdenti, pare un paradosso. Ma non lo è. Perché Bersani da mesi cavalcava già da vincitore sulle macerie di 20 anni di berlusconismo, dava l'affidabilità della vecchia scuola del riformismo comunista di marca emiliana, aveva superato con forza il giovane Renzi alle primarie e godeva delle simpatie di mezza Europa, anche di quella più conservatrice. Eppure ha perso perché il suo partito è stato superato nelle regioni-chiave, da quelle più ricche del Nord a quelle decisive del Sud. E oggi potrebbe per di più ritrovarsi con Maroni governatore lombardo.
Ha perso perché pensava di far convivere Monti con Vendola e alla fine, entrambi, sono rimasti ai margini del voto italiano. E ha perso perché, anche se il Pd si aggiudica la Camera, davanti ha l'ingovernabilità del Senato che porta diritta verso un nuovo voto, magari in autunno. Ultimo dato, e non solo, il suo Pd veleggia sotto il 30% mentre quello dell'autosufficienza veltroniana, era arrivato - pur con la debacle al 35 della sinistra radicale - al 38% al Senato.
Ha perso Monti, perché la sua scommessa di ricostruire un centro ago della bilancia è fallita, perché non è stato riconosciuto il suo ruolo di "salvatore della patria" per aver evitato il baratro economico, perché si è giocato anche la sua immagine di uomo e tecnico super partes che poteva tornare utile ancora adesso o comunque al Quirinale.
Poi i vincitori. Se anche non ce la facesse alla Camera, Berlusconi si mostra come l'uomo politico dalle sette vite, e oltre. Si è fatto cacciare da Palazzo Chigi, ha avuto e ha l'Europa contro, è stato travolto dai processi anche con accuse quantomeno imbarazzanti, il suo partito è finito nel tritacarne degli scandali, ma non si è mai arreso. Ha sfoderato vecchi argomenti e nuove strategie, si è perfino "costruito" una fidanzata bella e giovanissima, ha dimostrato una vitalità inedita. Ma soprattutto ha dimostrato ancora una volta di conoscere meglio di tutti gli italiani, la loro pancia e anche un po' la loro testa e si è rimesso al centro di una partita da cui sembrava poter essere escluso per sempre. Qualsiasi premier o aspirante tale dovrà trattare con lui e, magari, cercarne l'alleanza sapendo benissimo che in un voto futuro sarà Berlusconi a raccoglierne i frutti scaricando gli oneri sul suo compagno di viaggio.
E poi c'è Grillo, o meglio il Movimento 5 Stelle. Mai in Europa un partito di protesta e populista era arrivato a tanto, quasi a insidiare addirittura una Camera. I grillini sono la febbre di un Paese a terra, economicamente e moralmente, ma non la medicina. Almeno sull'immediato quando per loro ammissione e per le barriere alzate dagli altri, i loro voti rischiano di essere ibernati in quanto "non spendibili".
Però, per quanto non sia facile dialogare con un movimento che non ha neppure un "volto" politico ma solo un leader delle piazze e del web, proprio perché ha portato alla ribalta i sintomi del Paese malato non va messo in un angolo. Perché lì dentro c'è l'Italia stremata che vuole cambiare, che vuole ribaltare anche e soprattutto la politica, che pretende onestà e pulizia, ma anche lavoro e meno tasse, che dice no ai parassitismi e ai ritardi storici. Questa parte d'Italia in modo prepotente ha scelto di lanciare il segnale affidandosi per ora a un comico.
Nessuno, vincitore o vinto, si può permettere di ignorare questo Paese con vecchie alchimie o moderne furbizie. Il guaio è che deve farlo mentre la crisi infuria, le casse sono vuote, le fabbriche pure e da oggi sarà allarme rosso in Europa e sui mercati già pronti a gettarsi sulla nostra carcassa. Per questo il timore è che, alla fine, abbiano perso tutti.
Umberto Montin
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