Perché, allora, un personaggio moderato come lui lancia il manifesto di protesta e indignazione contro l'archiviazione dell'inchiesta sul muro? Perché usa termini forti come «ci sentiamo offesi nella nostra dignità di cittadini»? Perché chiama a raccolta l'Ordine degli architetti, il Centro Volta e altre istituzioni come il Carducci, la Famiglia Comasca e tutte le associazioni professionali e culturali del capoluogo? Perché lancia la rivolta di Como contro l'assoluzione del muro?
La risposta, purtroppo, è molto semplice. Perché la ferita è ancora aperta. Se il caso fosse già finito nell'archivio della memoria la decisione del Tribunale di Como non avrebbe destato tutto questo clamore. Ma la realtà è un'altra: il lungolago è ancora ostaggio di un cantiere infinito, i comaschi e i turisti sono costretti a convivere con staccionate, grate e transenne che oscurano e deprimono la bellezza più evidente di questa città.
Non è questa la sede per entrare nel merito dell'archiviazione o delle conclusioni del pubblico ministero («il muro non avrebbe influito se non marginalmente nella percezione visiva dei luoghi»). Le decisioni dei giudici non si discutono, si rispettano. Al massimo si possono commentare.
Quello che appare evidente in tutta la vicenda è come ci sia un abisso tra ciò che viene stabilito in punta di diritto e il sentire comune dei cittadini, ben interpretato dalla temeraria uscita di Brenna.
Ma questa distanza non si può giustificare sulla base di tecnicismi giuridici perché (giustamente) il magistrato è chiamato a esprimersi su un'ipotesi di reato, cioè sulla responsabilità personale di qualcuno. E in questo caso specifico, in base a un ragionamento giuridico, prima il Pm e poi il Gip hanno valutato che non c'erano gli estremi per configurare un reato.
Bene. Ma la distanza rimane. Il magistrato valuta codice alla mano una persona, sia essa un tecnico oppure un politico.
C'è però una responsabilità diversa. Politica, prima ancora che ambientale o paesaggistica. È la responsabilità di un'intera classe dirigente, ancora evidente nelle ferite non rimarginate di questa città in macerie. Per questo l'archiviazione suscita oggi indignazione.
Fermarsi al provvedimento del tribunale sarebbe un errore. La sentenza più vera per il muro a lago non è stato il pronunciamento del magistrato, ma il voto dei comaschi. Che, non dimentichiamolo, al ballottaggio del 21 e 22 maggio scorso hanno condannato la maggioranza uscente di centrodestra ad essere ininfluente, riversando i tre quarti dei voti su Mario Lucini, una percentuale altrimenti impensabile per il centrosinistra.
La nuova amministrazione è figlia di dieci anni di Giunta Bruni, dell'affaire Ticosa e, soprattutto, del muro. E questo giudizio - avete fallito, andate a casa - non è stato emesso dopo un sommario processo giacobino o dai soliti magistrati comunisti, ma da cittadini esasperati come l'ultra moderato Franco Brenna, che hanno platealmente condannato il reato più grave agli occhi dei comaschi: non amare la città.
Questo il nuovo sindaco deve ricordarlo bene, facendo tesoro degli innumerevoli errori di chi l'ha preceduto: altrimenti si troverà di fronte l'indignazione di ritorno di una realtà che ha ancora troppe ferite aperte. E la primavera comasca del centrosinistra si rivelerà solo una fugace meteora.
Emilio Frigerio
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