Un'amica, che in un bar lavora, raccontava una di queste storie. Quella di un padre che, figlia piccola al seguito, non sa rinunciare alle ore trascorse a dilapidare fortune e neuroni, mentre la bimba consuma un mottarello in triste solitudine. Un'immagine che, da sola, dovrebbe bastare a convincere un Paese - fosse ancora in grado di distinguere un'emozione da un gratta e vinci - a spazzar via le macchinette mangiasoldi dai bar e dai ristoranti e dalle decine di sale dedicate al gioco d'azzardo, spuntate come funghi grazie a una indiscriminata e pericolosa liberalizzazione.
È bene inoltre non dimenticare mai che a margine del gioco d'azzardo e della disperazione che la dipendenza a questo creano si aggirano famelici gli usurai e, spesso, anche le organizzazioni mafiose.
Non si tratta di criminalizzare quei bar che alle slot non hanno ancora rinunciato, ma di far leva sui gesti concreti e tangibili che sono in grado di ricordarci che la stella polare del nostro passeggiare lungo la vita non è il conto in banca, o una botta di fortuna milionaria, né il tintinnare di gettoni ottenuti grazie a una combinazione vincente. Anche se il papà della bimba con il mottarello riuscisse a sbancare la slot, alla figlia la vita non cambierebbe di una virgola. Mentre sarebbe rivoluzionata se il tempo sprecato a pigiar tasti, tirar leve e inserire monete in apposite feritoie si trasformasse in chiacchiere, abbracci, giochi e un gelato gustato assieme al parco giochi.
Nell'Italia degli alibi, che si assolve sempre e comunque perché tanto la colpa è degli altri e in ogni caso la legge me lo consente, i bar che dicono no alle slot finiscono per assomigliare a un'oasi, a un raggio di luce tra la nebbia, a una lettera in una bottiglia. Che ci racconta di un tempo in cui ci si commuoveva davanti a un film d'amore. E non a un portafoglio svuotato da un videopoker.
Paolo Moretti
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