Iniziativa nata una settimana fa e che ha già raccolto, con sorpresa di tutti, una sessantina di adesioni. La premessa è d'obbligo: le slot sono legali e nessuno si permette di appioppare bollini di qualità o di infamia.
Di più. Sappiamo benissimo di non avere il diritto di giudicare o anche solo criticare chi ha le macchinette nel suo bar. Ci mancherebbe. Ma nessuno può impedirci, in una società complessa e articolata com'è la nostra, di guardare e valutare le differenze. O di esaltare un esempio, un modello che ci piace: a Como ci sono 60 titolari di bar che hanno scelto di lavorare ispirandosi a criteri etici, sfidando il senso comune e le regole della società in cui viviamo, che privilegia la logica del denaro, del profitto e del successo a ogni costo.
Questi baristi lavorano per vivere, per fare profitto, per mantenere le proprie famiglie, per crescere i figli. Come tutti. Ma lo fanno con una consapevolezza rara: non è vero che il denaro non ha colore né odore.
Pecunia non olet, dicevano i latini. Ed è un falso clamoroso: il denaro può avere un odore sgradevole, eccome, se viene dalla malattia, dalla debolezza, dalla perdizione altrui. Questi sessanta baristi comaschi, dall'Alto Lago alla Bassa, non sono asceti sulla via della santità. Cercano di guadagnare per vivere, com'è normale, ma hanno messo un paletto etico che non hanno voluto oltrepassare. La maggior parte di loro non ha mai neppure sentito parlare dell'Enciclica "Caritas in veritate" di Benedetto XVI, né conosce la sua tesi di fondo: dalla crisi non si esce semplicemente guardando alle regole del mercato, ma inserendo nel mercato un supplemento di carità.
Eppure, nelle parole di molti di quei sessanta obiettori, riecheggiano concetti non molto distanti. «I soldi delle slot - dice Angela Cuomo, titolare di un bar di via Luini - io non li voglio nemmeno vedere. Rispondo alla mia coscienza e non mi va che la gente si rovini». È solo un esempio, giusto per citare l'ultimo. Eccone altri. «Una volta le avevo - spiega il canturino Enzo Tagliabue - ma ora sono contento così e non ho intenzione di tornare indietro». «Siamo stanchi di vedere la gente rovinarsi al gioco», dice un altro gestore da Capiago. E Antonio Rosa, dal bar Bollicine di Limido, rincara: «Non voglio essere complice di una truffa legalizzata». C'è chi preferisce non attirare brutta gente o rischiare di trovarsi una pistola alla tempia. Ma la maggior parte di loro guarda oltre. Andrea e Simone del Templebar di viale Puecher, ad esempio, rilanciano: «Abbiamo detto no alle slot per l'esperienza maturata nel vedere gente ridotta all'ombra di se stessa». Una scelta non facile, per altro. Come ammette il titolare dell'Elfo del Bacco, l'incasso delle macchinette gli «avrebbe fatto comodo». Ma alla fine il bar è slot-free. Chapeau.
Dalle parole di questi baristi esce una Como bella e inedita. È una lezione positiva, esemplare, che va applaudita. Dà fiducia e abbatte con un calcione tanti modelli negativi che ci vengono continuamente propinati. E lo è a maggior ragione perché queste parole non escono da un cenacolo di intellettuali, ma da un comune luogo d'incontro com'è il bar, naturale prolungamento della piazza. Questi sessanta commercianti sono piccoli eroi della vita di tutti i giorni, della porta accanto. Ed è un piacere averli incontrati.
Emilio Frigerio
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