Suona paradossale, ma a ricordare l'attualità di un principio che trova ampia ispirazione nei libri di storia, è oggi un giudice, la cui toga è sì garanzia di una perfetta sovrapposizione tra legalità e giustizia, ma non per questo sinonimo di cieca interpretazione dei fatti della vita. Nelle cose umane giustizia e legalità non sempre vanno a braccetto. Si pensi ad esempio alle leggi razziali sotto il fascismo, profondamente ingiuste eppure legalmente ineccepibili quando furono promulgate. O ancora le lotte contro l'apartheid in Sud Africa, bollate come illegali dal regime dei bianchi, ma infinitamente giuste come lo sono le battaglie per i diritti civili e l'uguaglianza tra gli uomini.
Sarebbe troppo facile pescare ulteriori conferme all'assioma iniziale dai libri di storia. Più stimolante è farlo avvicinando la linea dell'orizzonte all'oggi. Magari puntano l'obiettivo su un caso che ha fatto discutere, arrabbiare, preoccupare, indignare: il concorso truccato per l'assunzione di un vigile a Como. Ieri avete letto in queste pagine le accuse dei giudici a due ex assessori di Palazzo Cernezzi, ritenuti i principali responsabili della fuga di notizie sulle tracce della prova scritta eppure mai nemmeno imputati nel processo. Tra i passaggi più significativi scritti nella sentenza dal giudice Walter Lietti uno, in particolare, merita una riflessione supplementare.
Riguarda la decisione dei due ex assessori (Paolo Gatto e Francesco Scopelliti) di avvalersi della facoltà di non rispondere quando chiamati a testimoniare in udienza. Decisione «ineccepibile e insindacabile», scrive il giudice. Eppure, proprio perché non tutto ciò che è legale è anche giusto, il loro silenzio ha «determinato una incolmabile zona d'ombra nell'accertamento della verità, tanto più grave avuto al riguardo del ruolo da essi ricoperto di rappresentanti delle istituzioni in relazione a un fatto che avrebbe richiesto da questi soggetti una maggiore trasparenza».
Tra tanti sterili richiami sul senso della politica e del ruolo degli amministratori, queste poche righe infilate in una sentenza scritta «in nome del Popolo italiano» hanno una forza che merita di essere rimarcata. Dice il giudice: è legale e giusto che un cittadino comune si trinceri dietro al silenzio, quando ha il diritto di farlo. Non lo è per un uomo delle istituzioni e un amministratore.
Il senso è chiaro e dovrebbe essere perfino stucchevole rimarcarlo: chi si assume l'onere e l'onore di rappresentare gli italiani deve accettare una maggiore responsabilità. E deve mettere in primo piano ciò che è giusto per tutti, anche a scapito di ciò che è legale per se stesso. Quei due assessori avevano il dovere morale di rispondere alle domande del giudice e imboccare una via di trasparenza che non vuol dire dirette streaming, ma limpida e responsabile accettazione del proprio dovere.
Politici impresentabili e amministrazioni impermeabili ai bisogni dei cittadini hanno scatenato una repulsione nazionale che, da un lato, è un'occasione irripetibile, ma dall'altro cela il rischio concreto che tutto cambi per restare, in fondo, uguale.
Non voglio essere rappresentato da uno come me, ma da uno migliore di me. Uno che non dimentichi mai dove sono di casa giustizia, trasparenza e senso di responsabilità.
Paolo Moretti
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