È la conferma che l'elezione del presidente della Repubblica precederà qualsiasi decisione sul governo. È chiaro che i «criteri» ai quali ha accennato il vicesegretario del Pd potrebbero diventare il riferimento della «fase due», magari integrata dal lavoro che i «saggi» nominati da Giorgio Napolitano stanno completando su un possibile programma comune. Intanto un primo risultato del vertice Bersani-Berlusconi è la decisione di individuare una rosa di nomi ampiamente condivisi: anche con montiani, leghisti e vendoliani, sembra di capire, perché si intende eleggere al Colle una personalità che rappresenti davvero l'unità nazionale e che non sia percepita come ostile né da destra né da sinistra. Un po' nel solco delle sollecitazioni di Napolitano.
Ma mentre a Roma si discute, Sagunto brucia. Il processo di avvicinamento dei poli appare lento e faticoso mentre la crisi economica incalza e la disoccupazione aumenta. I grillini, Vendola ma anche il Pdl invocano interventi urgenti a difesa delle famiglie e di coloro che il lavoro lo hanno perso o rischiano di perderlo a breve. Ciò significa che la scelta del nuovo capo dello Stato dovrà giocoforza rappresentare il ponte per un'intesa che porti il Paese fuori dalle recessione. Del resto il presidente della Repubblica nel nostro sistema politico è venuto sempre più assumendo una funzione di indirizzo dell'esecutivo che si somma a quella di garanzia: è dunque facile comprendere che un accordo tra Pd e Pdl sul candidato non potrà non avere riflessi anche sulle trattative per la nascita del governo che sostituirà quello dei tecnici.
È su questo terreno che si scorgono le insidie maggiori.
Già la scelta della «rosa condivisa» rappresenta un bell'esercizio di equilibrismo per partiti che si sono combattuti senza quartiere; un'intesa per un governo di scopo appare al momento un salto mortale carpiato. I leghisti in realtà sembrano incoraggiare Berlusconi a «fare ciò che è utile», per usare le parole di Alfano: dare l'appoggio esterno a un governo Bersani che dovrebbe fare il lavoro più difficile e durare ben poco per poi tornare alle urne in autunno o al massimo nella primavera 2014 in coincidenza con le europee. Il centrodestra in questo modo avrebbe dimostrato responsabilità senza sporcarsi più di tanto le mani.
L'interrogativo è se il segretario del Pd sia davvero disposto a correre un rischio di questo genere, pur di sedere a palazzo Chigi. Ma è anche vero che il percorso è in qualche modo obbligato: nel partito preme la fronda renziana e gettare adesso la spugna potrebbe significare per Bersani consegnare le chiavi del Pd e della premiership al suo grande avversario.
Pierfrancesco Frerè
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