Autobiografia della nazione. Ritratto di famiglia. Finestra sul cortile delle miserie ataviche di questa italietta da due soldi. Non c'è niente da fare: anche stavolta il richiamo della foresta è stato irresistibile.
Un paio di giorni fa un polveroso sindacalista del nostro territorio - il nome è irrilevante - ha dato forma plastica a tutta quella cultura che pervade la società italiana garantita e parassitaria e che rappresenta uno dei mali che ci hanno ridotto in queste condizioni: uno sciopero dei treni nel giorno clou del Salone del mobile? Meglio, così farà più notizia.
Applausi. Uno statista. Un gigante del Novecento. Ora, il punto non sta tanto in chi sia questo signore e quale sindacato rappresenti, quanto invece quanto sia tragico che un mondo ormai morto e sepolto abbia ancora la forza di soffocare chi invece ha capito che le battaglie da affrontare per sopravvivere sono diverse e opposte. Com'è possibile che ancora oggi l'unico punto di coagulo per la rivendicazione dei diritti di una categoria sia il danneggiare le altre? Da quale mesosfera scendono questi scienziati che hanno ingegnato di colpire una manifestazione di livello mondiale alla quale partecipano, da protagoniste assolute, decine e decine di aziende della nostra terra che - questo è il vero miracolo italiano, altro che le balle cacciate da intrattenitori da crociera, patetici funzionari di partito e talebani della democrazia sul web - producono, vendono e si fanno ammirare in ogni angolo del mondo alla faccia dell'assistenzialismo, dell'incultura e dell'inadeguatezza delle nostre classi dirigenti?
Grande strategia, punire i pendolari, i turisti, le famiglie in gita per il finesettimana, gli addetti ai lavori. Complimenti. E poi i sindacati si domandano come mai in ogni sondaggio di opinione degli ultimi vent'anni risultino inesorabilmente agli ultimissimi posti - appena sopra i politici e i giornalisti - nella classifica della disistima nazionale. E chissà perché? E chissà come mai? E chissà per quale motivo? E ci pensano, e si arrovellano e si grattano la pera in cerca di risposte recondite ed esaustive senza capire che la ragione è semplicissima: tutti li vedono - a torto o a ragione - come parte integrante di un sistema autoreferenziale e corporativo che protegge se stesso e le sue clientele.
Politica, burocrazia, sindacato, informazione: tutto un unico mostruoso conglomerato di poteri che vive e si autoalimenta spremendo la parte produttiva del paese e impedendo ogni minima forma di cambiamento. Insomma, la solita casta. E quando vedi che nel momento in cui viene indetto uno sciopero, già di per sé insensato in un momento come questo, lo si piazza sempre all'inizio del weekend, così magari lo scioperante si fa un bel filotto a casa fino al lunedì, allora a un piccolo imprenditore - ma anche a un dipendente statale senza le fette di salame sugli occhi - viene veramente voglia di fare qualche sproposito.
D'altronde è uno sport nazionale, come quando le indimenticabili autogestioni studentesche del liceo si scatenavano tutte tronfie ed egagre appena dopo i Morti, per poi minacciare rivoluzioni palingenetiche a fine novembre giusto in tempo per attaccarsi al ponte di Sant'Ambrogio prima e alle vacanze di Natale poi, che arrivavano giusto in tempo per rimettere Che Guevara e il Chiapas in naftalina fino all'autunno successivo. D'altronde, so' ragazzi… O come quando il classico postino o insegnante se ne torna al paese per le feste e lì - inesorabile come le cavallette, l'addizionale Irpef e un gol in fuorigioco al novantesimo - cade malato e da lì in poi se ne perdono le tracce e la memoria. Facezie di questo meraviglioso paese che però - tornando seri - rappresentano uno schiaffo nei confronti dei tanti insegnanti e postini e studenti e sindacalisti che lavorano tanto, bene e con correttezza esemplare.
E il fatto che l'ultimo sciopero dei treni abbia colpito il nostro territorio in maniera solo parziale è irrilevante. È la cultura che lo sorregge che fa paura. E che può essere sconfitta solo dal di dentro. Questa è la vera sfida. Negli ultimi due giorni abbiamo cercato con ostinazione almeno un rappresentante di una qualsiasi sigla sindacale che finalmente dicesse che è ora di cambiare, di inventarsi nuovi modi per difendere i diritti dei propri associati. Abbiamo sperato che qualcuno ammettesse che un sindacato serio fa innanzitutto rispettare i doveri e dopo - solo dopo - si mette a difendere i diritti e la smette di dire, come al solito, che è sempre colpa di qualcun altro, della politica, delle multinazionali, del complotto masso-pluto-giudiaco e tutto il resto del ciarpame che continua ad allignare in tutte le categorie. Ma non l'abbiamo trovato.
Proprio per questo, si rischia di rimanere quello che si è diventati negli ultimi trent'anni: una parte della casta che difende chi il lavoro ce l'ha e non fa nulla o poco e comunque male per trovarlo a chi ne è privo. E che fa pagare agli altri il prezzo delle sue battaglie di retroguardia, spesso lanciate con finalità poco sindacali e tanto politiche. Questo è il punto. Il sindacato è una cosa importante - chiunque abbia un minimo di cognizione della storia del Novecento lo sa bene - ed è un valore che va preservato. Ma certo non in questo modo.
Il nostro sindacalista baluardo del revanscismo anti-consumi faccia, se vuole, un salto in redazione così magari gli regaliamo una biografia - in edizione economica - di Giuseppe Di Vittorio, un signore che aveva idee lontane un milione di chilometri da quelle di chi scrive questo pezzo, ma che in anni terribili ed eroici ha dimostrato a tutti - contadini e padroni - cosa significhi far parte di un sindacato. Quello era un sindacalista vero. Poi, è arrivato il tempo di quelli da operetta.
Diego Minonzio
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