Ricordo ancora perfettamente ciò che accadde cinque anni fa, quando al giovane di Montecchia di Crosara fu concessa la semilibertà, oggi trasformata in libertà piena. Prima arrivarono le interviste ai suoi concittadini che, con rare eccezioni, si dissero amareggiati, e convinti che «uno che ha fatto quelle cose lì non dovrebbe più uscire di galera». In ciò esprimendo, beninteso, il comune sentire della maggior parte degli italiani. Fu scovata poi una vecchia zia che, aggiunse, di lui non voleva sapere più nulla; mentre le sorelle, defilate, lo avevano da tempo perdonato, andandolo a trovare in carcere, quando era loro permesso. Neanch'io sfuggii all'assalto dei cronisti, che mi posero una domanda tanto pertinente quanto ingenua. «Secondo lei – mi chiesero – è possibile che una persona, dopo diciassette anni di galera, sia diversa?» Oggi, dopo altri cinque anni di semilibertà, il quesito si ripresenta con la stessa forza. E la risposta non può essere che condizionata: se una cosa orribile come quella di Pietro Maso la combini che sei un ragazzo, magari riesci a cambiare dopo ventidue anni di detenzione; così come potresti restare lo stesso disgraziato per tutta la vita. Ciò che colpisce in delitti come quello avvenuto a Montecchia di Crosara è un insieme di fattori: il movente, il voler prendersi il denaro dei genitori tutto e subito; le vittime, madre e padre appunto, uccise dopo averne cancellato l'umanità e ridotti a semplice ostacolo da abbattere; la premeditazione e la crudeltà dell'esecuzione; e da ultimo il comportamento successivo al delitto, freddo, irriverente, senza un cenno di riflessione e pentimento. Tutte cose per le quali è difficile accettare che Pietro Maso possa mai tornare ad essere un cittadino normale. Non credo tuttavia che nel 2008 la magistratura di sorveglianza di Milano gli abbia concesso la semilibertà senza aver a lungo ragionato, senza aver assunto informazioni sul suo comportamento dietro le sbarre, senza averlo testato in più permessi e licenze. E oggi, trascorsi altri cinque anni di misure alternative, nuovi elementi si sono aggiunti al suo fascicolo: l'atteggiamento tenuto sul lavoro, la capacità di instaurare un rapporto affettivo importante, una ragazza che da fidanzata è poi diventata sua moglie. Se Pietro Maso oggi afferma di avere uno scopo nella vita, e di avere trovato conforto nella fede, potremmo provare a credergli. Questo non significa cancellare l'orrore di cui si è macchiato e che si porterà appresso tutta la vita. In fondo si tratta di decidere se il carcere possa assolvere a una funzione di riabilitazione (in tal senso si esprime la nostra Costituzione), oppure il suo scopo sia soltanto punitivo e retributivo. Ho lavorato a lungo in strutture di massima sicurezza, e in veste di consulente e di perito ho incontrato i più stupidi, i più improvvisati e i più efferati criminali. Credo che ventidue anni trascorsi da detenuto, su un totale di quarantuno vissuti, dovrebbero garantire almeno una chance di reinserimento. E se nel prossimo futuro riuscirà a evitare i riflettori dei media, più opportunità avrà di farcela.
Massimo Picozzi
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