Il ragionamento aderisce perfettamente al dibattito della vigilia elettorale per la scelta del nuovo capo dello Stato. Tutti i principali protagonisti, da Bersani a Berlusconi a Renzi a Grillo ragionano in funzione della propria convenienza o di quella del proprio partito e non del fatto che bisogna individuare una figura che possa rappresentare l'Italia e gli italiani in un momento delicato nella storia non solo politica del Paese. Più che baloccarsi sui nomi da bruciare o da lanciare, sarebbe opportuno concentrarsi sull'identikit del presidente della Repubblica. Che deve essere prima di tutto una figura riconosciuta e apprezzata fuori dai nostri confini e un punto di riferimento istituzionale stabile. Qualunque sia, infatti, la soluzione dell'enigma del governo, una cosa è certa. Sia che nasca da questo Parlamento sia da uno nuovo, rieletto con il Porcellum, si tratterà di un esecutivo debole e con una piattaforma programmatica non molto efficace perché figlia di un ineluttabile compromesso tra forze politiche comunque non omogenee tra loro. Ecco allora che per rassicurare gli alleati forti dell'Europa e i mercati non resterà che la figura del presidente della Repubblica.
Se il fumantino Matteo Renzi avesse fatto questa riflessione avrebbe avuto argomenti un po' meno ineleganti per stroncare le candidature di Anna Finocchiaro e Franco Marini che, non per colpa loro, ma per il loro cursus honorum, non dispongono di forti entrature europee. Discorso analogo si può fare per Milena Gabanelli, giornalista di grande spessore ma del tutto estranea a certi ambienti.
I requisiti necessari li avrebbero sia Romano Prodi, sia Massimo D'Alema e anche Giuliano Amato. Il piombo sulle loro ali per il volo verso il Colle si chiama però Pd, il partito che sta riproducendo tutti i difetti della vecchia Dc che, non a caso, solo una volta, con Cossiga, è riuscita a mandare al Quirinale il candidato ufficiale della segreteria, bruciando negli anni pezzi grossi del partito come Fanfani, Andreotti e Forlani.
Un Pd non solo diviso ma lacerato dalle polemiche non è il miglior viatico per i candidati della rosa del partito. Una situazione che potrebbe, nel caso di una ripetuta serie di fumate nere anche dopo il terzo scrutinio (quando la maggioranza per le elezione si abbassa), favorire Mario Monti. Il presidente del Consiglio in carica ha capito la lezione della discesa in politica e si è astutamente defilato. E la storia delle elezioni al Quirinale insegna che spesso partire fuori dalla griglia diventa un vantaggio. Da domani, con le prime votazioni, si comincerà a capire come vanno le cose. L'importante è che, come avvenuto spesso in passato, dalle divisioni possa emergere una figura autorevole e capace di unire il Paese com'è accaduto per Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. C'è il precedente dell'elezione, nel lontano 1964, di Giuseppe Saragat dopo un'estenuante melina. Un giornale inglese scrisse che era stato scelto l'uomo migliore nel modo peggiore. Del modo si ricordano in pochi, dell'uomo in molti.
Francesco Angelini
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