E quando le cose vanno male, vanno male per tutti. Per chi vende, per chi rifornisce chi vende, per chi produce la merce da vendere e per chi non ha i soldi per comprarla. Il presidente dei Confcommercio Giansilvio Primavesi è preoccupato. Lo era prima dei saldi invernali quando i negozi traboccavano di abiti e scarpe magnifiche scontati al 50% già al primo giorno.
Lo è ancora di più ora che i saldi sono naufragati e le vendite delle nuove collezioni sono così rallentate da costringere molti negozi a far sconti da subito. I fornitori, che hanno il polso della situazione, sono ancora più preoccupati di Primavesi. Perché la merce va pagata in anticipo.
Ma se non sono entrati i soldi dalle vendite invernali, i negozianti faticano a pagare gli articoli primaverili. «Questo - dice Primavesi - è un segnale, la spia che altri negozi dovranno chiudere». Chi ha le spalle larghe resiste, ma galleggia appena. Questa è una crisi che arriva da molto lontano. Da un Paese che rischia il default da mesi e che, nel tentativo di non finire in bancarotta, ha alzato le tasse a un livello intollerabile. Da una serie di imprenditori che da queste tasse e da una crollo della domanda e quindi delle vendite, sono rimasti schiacciati. E da una perdita di posti di lavoro che è una vera e propria ecatombe.
I disoccupati non comprano. I cassaintegrati fanno già fatica a fare la spesa. I pensionati, che spesso devono mantenere figli disoccupati e cassaintegrati, non possono tenere in piedi l'economia da soli. E anche chi ha i soldi, ha iniziato a risparmiare. Se marchi come Prada, Dolce e Gabbana e Loro Piana aumentano i fatturati è grazie al mercato straniero. Il mercato italiano è inchiodato.
Come dice chi fabbrica tessuti per camicie e con quelli aveva creato ricchezza per se stesso e per i propri dipendenti. Le vetrine dei negozi chiuse (il cimitero di via Milano alta è il simbolo della crisi) sono il seguito delle fabbriche chiuse. E i lavoratori lasciati a casa dalle ditte che producevano scarpe o giacche sono quelli che non possono più comperarsi scarpe e giacche nuove. Pure chi il lavoro ce l'ha ancora sa che non potrebbe essere per sempre. E prima di fare un acquisto ci pensa. Alla fine compra solo l'indispensabile.
Possibilmente a prezzi bassi. Tutto questo si riflette nel bilancio delle aperture e delle chiusure dei negozi. I numeri dicono che nel 2012 se ne sono persi oltre 300, rimpiazzati solo da 200 nuove attività. I primi tre mesi del 2013 presentano, stranamente, un saldo positivo. Ci sono state più aperture che chiusure. Ma se poi si va a vedere nel dettaglio, si scopre che le aperture seguono le tendenze del momento, le sigarette elettroniche, i servizi internet e corrispondenza. Alimentari, calzature, abbigliamento e accessori sono in sofferenza. Ci sono commercianti e imprenditori che hanno già iniziato a tagliare le spese, dalla colf al personale. Perché le bollette vanno pagate e sono aumentate, gli affitti si giustificano solo quando il lavoro gira e questo benedetto lavoro non gira. Si può pensare che la crisi, come è arrivata, finirà.
Che i camion torneranno sulle strade, pieni di merce e le imprese riapriranno. Ma guardando la realtà, se qualcosa non cambia (ma nessuno sa bene cosa) ci saranno ancora negozi senza clienti destinati a diventare una vetrina vuota. Con il cartello vendesi, affittasi o cedesi attività.
Anna Savini
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