In questi giorni di arruffate trattative per la composizione del governo si sono viste cose che hanno finalmente riconciliato con la vita e donato sprazzi di autentico buonumore. Tra tutte, una spassosissima intervista a La Stampa della deputata pidiellina Michaela Biancofiore che, candidandosi come ministro ideale, chiedeva di lasciare «campo alla Berlusconi generation, fatta di persone pulite e capaci». Un'analisi impeccabile che le garantirebbe di eccellere non solo come responsabile di un qualsivoglia dicastero, ma anche in altri incarichi del tutto consoni al suo curriculum di prima fascia: la miniera, la fonderia e, soprattutto, la raccolta dei San Marzano in qualche latifondo di Battipaglia. Non da meno la straordinaria performance televisiva di Marianna Madia (Pd) - la classica nullità generata dal ridicolo giovanilismo veltroniano - che a "Servizio pubblico", dopo aver snocciolato una serie di insulsaggini sul reddito di cittadinanza, è stata sbranata in diretta da Massimo Cacciari, che sarà anche un egocentrico rompiscatole ma che è dotato di un'intelligenza e di una cultura sconosciute al 95% dei nostri parlamentari. Sulla capogruppo grillina Roberta Lombardi, dopo le figuracce da Sora Cecioni nell'ultima diretta streaming con Enrico Letta, non è neppure il caso di infierire…
Morale della favola, le giovani deputate del nuovo Parlamento sono riuscite ad essere pure peggio dei loro colleghi uomini. Sembrava impossibile, eppure ce l'hanno fatta. A ennesima conferma, come ricordava ieri Vittorio Feltri in un accorato editoriale, che le nuove generazioni non sono affatto diverse da quelle vecchie, perché legate fra loro da un robusto legame di conformismo che garantisce il passaggio da una all'altra. Poi ci sono i migliori, i talentuosi, i visionari: ma quelli nuotano da soli come gli squali e non in branco come i tonni e di certo non è l'età, il sesso o l'appartenenza a definirne la grandezza. In fondo aveva proprio ragione Flaiano: quasi tutti i giovani hanno il coraggio delle opinioni altrui.
E quindi tutto questo lambiccarsi su chi è entrato nel nuovo governo e quanti sono i quarantenni e quante le donne e quanti i novizi e quanto sia stato necessario eliminare certi ex ministri o i collusi con le più o meno recenti esperienze di governo e i rottamatori e i giovani turchi e le vecchie carampane con le loro gualdrappe milleusi e tutto il resto dell'insopportabile ratatuille sociologistica di cui sono infarciti i giornali non ha alcun senso. Perché la verità è un'altra: abbiamo appena saputo che è iniziato il nuovo governo, ma sappiamo già come andrà a finire. Allo stesso modo di tutti gli altri. Negli ultimi due decenni la nostra stoltezza ideologica, oltre che a farci perdere di vista, in nome di un purismo talebano, l'unica cosa che conti in politica - la realtà effettuale di Machiavelli - ci ha anche portato a immaginare che si fossero alternate al governo visioni opposte della società e dell'economia. Una politica socialista e statolatrica volta, secondo la vulgata degli Amato, dei Prodi e dei D'Alema, alla redistribuzione a favore dei ceti meno agiati, oppure una liberista che scardinava i vincoli soffocanti alla libertà di intrapresa - secondo i gorgheggi del più tipico Berlusconi da crociera - oppure ancora un'asettica e algida e spietata adesione ai vincoli di un'Europa massonica e teutonizzata sulla falsariga dei Ciampi e dei Monti. Tre universi inconciliabili.
E invece sono tutte balle. In tutti questi anni e con tutti questi governi e con tutti i vecchi e con tutti i giovani, sotto la ridicola e spesso pagliaccesca contrapposizione antropologica che sembrava prefigurare una faida degna della guerra civile degli anni Quaranta, si è srotolato il più vieto continuismo che nessuno degli attori in campo ha mai neppure lontanamente pensato di recidere. Sempre la solita solfa. Più tasse, più Stato, più burocrazia, meno mercato, meno libertà, niente investimenti, niente infrastrutture e la stessa identica impossibilità di spezzare quel collettivismo da socialismo reale, quel mostro burocratico-castaiolo-veterosindacale protetto e foraggiato per esaltare i mediocri e deprimere i talenti. Insomma, la solita Italietta da film neorealista. È una struttura che viene da lontano, naturalmente - tutto ha una storia - e che affonda le radici nel ruolo immanente avuto per tutto il dopoguerra da due "partiti chiesa" come la Dc e il Pci, nell'assenza di una vera classe imprenditoriale non sovvenzionata dallo Stato e che fosse conscia del proprio ruolo non solo economico ma soprattutto culturale ed etico, nella visione perversa di un assistenzialismo a prescindere, di una familiarità con l'evasione e la corruzione da paese sudamericano, quale in fondo siamo sempre stati.
E se è così, c'è qualcuno che crede veramente che un Letta o un Renzi o una qualche macchiettistica ministressa con i corsi accelerati di politica del maestro Manzi possa avere la caratura, lo spessore, il profilo per farci uscire da questa melma? Chi avrà mai il coraggio di demolire il Moloch ministeriale che tutto blocca e tutto insabbia, di liberalizzare le assunzioni e i licenziamenti - perché gli imprenditori non possono prendere i bravi e devono tenersi i cretini, questa è la verità, cari i nostri sindacalisti tutti di un pezzo - di defiscalizzare il mercato del lavoro? Chi avrà il polso di tagliare le tasse su imprese e famiglie andandoli a rastrellare dentro le sacche di inefficienza e clientelismo su cui si regge questa patetica baracca? Nessuno. Non certo questi partiti che di quello vivono, tutti quanti. Vasto programma, diceva De Gaulle. Che però, e non a caso, era francese.
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