Premesso che di fronte a cotanto argomento, la reazione del cittadino medio è, nel più benevolo dei casi, un sonoro e comprensibile chissenefrega, non si può nascondere come il Paese abbia un atavico bisogno di riforme, a partire da quella elettorale che escluda riferimenti suini. Purtroppo però le riforme devono farle i politici (questi politici) che hanno tutto l'interesse a non portarle a casa perché nella maggior parte dei casi si ripercuotono contro di loro, il loro status, la loro posizione e le loro prebende.
Questa è la principale ragione per cui dalle nostre parte di riforme ne sono state realizzate pochine e perlopiù depotenziate o addirittura peggiorative rispetto allo status quo a causa degli estenuanti compromessi (vedi alla voce lavoro made in Fornero, ma non solo).
Il secondo motivo della difficoltà nel riformare le istituzioni risiede nell'approccio dei politici di fronte alla varie bicamerali apparecchiate nelle occasioni in cui si avverte un languore riformista. Abbiamo visto passare, nella Prima Repubblica, la commissione presieduta dal barbuto liberale Aldo Bozzi, quella della strana (ma non troppo) coppia formata da Nilde Jotti e Ciriaco De Mita. Nessuna delle due riuscì a partorire un topolino. Stessa sorte per la dotta pattuglia parlamentare guidata, in anni più recenti nella bicamerale, da Massimo D'Alema che, come Dorando Petri è caduto in vista del traguardo a causa dello sgambetto di Silvio Berlusconi.
La verità è che queste commissioni sono vissute dai protagonisti perlopiù come nuove poltrone da scaldare (magari con i relativi benefit) e la ferma condizione che alla fine si balli sempre sulla musica del Gattopardo.
L'unica eccezione nell'epopea repubblicana è rappresentata dall'assemblea costituente del 1946-48. Che possedeva però alcune peculiarità in gran parte non ripetibili. Intanto era stata eletta dai cittadini e non nominata dai capibastone. Poi poteva lavorare sulla tabula rasa istituzionale lasciata dalla fine del fascismo e dalla monarchia. Quindi, last but non least, era composta da autentici statisti. Era il consesso, tanto per capirci, in cui il comunista Togliatti votata per il cattolicesimo religione di Stato e i moderati democristiani si pronunciavano in favore dell'articolo numero uno della Costituzione: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Cose impensabili oggi. Perché manca la volontà di far prevalere l'interesse comune su quello di parte. Ma soprattutto perché di statisti, all'orizzonte, non se ne scorgono. Tant'è che si pretende di far presiedere la convenzione (così si chiama questa volta) per le riforme a Silvio Berlusconi che, oggi, sta a uno statista come una tigre a una dieta vegana. Di occasioni per diventare uno statista, il Cavaliere in questi vent'anni ne ha viste passare molte. Purtroppo, essendo in altre faccende affaccendato, non ne ha afferrata nessuno. E ora è tardi. Altrove, peraltro, la situazione non è migliore. Le riforme possono attendere. Anzi no, ma andrà così.
Francesco Angelini
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