Giulio Andreotti ha rappresentato la gran parte della Prima Repubblica. Più e meglio di tutti ha rappresentato il Potere nella sua essenza. Si di lui giudicherà la storia, quando sarà passato del tempo, quando avremo le carte, quando si aprirà il suo celebbre archivio.
Valuteremo bene e male, cercheremo di capire le tante ragioni di decenni di vita pubblica e segreta del nostro Paese. Ma di una cosa siamo certi: Andreotti ha saputo rappresentare il suo personaggio come solo i grandi sanno fare. E, guardandoci intorno, lo diciamo con nostalgia.
Giulio Andreotti ha rappresentato la gran parte della Prima Repubblica. Non nel senso che abbia dominato la dinamica politica dei cinquant'anni che vanno dalle elezioni del 1948 all'esplodere di Tangentopoli, perché ad altri va attribuita questa capacità. Ma perché, a differenza degli altri padreterni usciti dalla guerra, Andreotti ha più e meglio di tutti rappresentato il Potere nella sua essenza.
Tra leggenda e verità
Anche fisicamente, il «Divo Giulio», l'unico a conquistare un simile titolo imperiale, ha personificato le contorsioni e le ambiguità del potere. Di un potere quasi sacrale, lontano, distante dalle cose di questo mondo e perciostesso capace – leggenda? verità? – di ogni più inconfessabile compromesso. Gli sono state attribuite connivenze con tutti i mostri della nostra storia recente: con la mafia, con il terrorismo nero, con Sindona e la P2, con gli ambienti più marci dello Stato.
Accuse che facevano riferimento a una dimensione mostruosamente grandiosa del male, e non certo a quella banale e feriale cui ci siamo abituati nella cosiddetta Seconda Repubblica. Non di volgari mazzette da ragionieri del potere parlavamo quando ci interrogavamo su Andreotti, ma di insondabili alleanze con i Grandi Poteri e di inconfessabili commerci.
Andreotti nulla faceva per smentire questa sua dimensione sulfurea. Molte delle sue celebri battute, anzi, avvaloravano un'idea cinica e pregiudicata del potere che – non dimentichiamocelo mai – «logora chi non ce l'ha». Quei giochi di parole per i quali andava celebre e che provocavano risate spesso cortigiane, rafforzavano nei detrattori l'idea che quell'uomo fosse davvero capace di tutto, mentre nei tanti ammiratori lo collocavano un gradino più in su di tutti. Solo Moro era avvolto dallo stesso mistero ma Moro era percepito come un innocente, anche quando gestiva concretamente del potere. Andreotti no, era «colpevole» a prescindere.
Però i processi che gli hanno fatto a Palermo e a Perugia per dimostrare che era mafioso e mandante di omicidi non sono mai arrivati a incastrarlo. Film brutti e banali usciti di recente ci hanno dato una idea caricaturale di Andreotti come «inevitabilmente colpevole» di tutto ciò che di brutto è accaduto nella prima storia della Repubblica, ma la verità giudiziaria non ha seguito quella politica che si voleva imporre.
«L'altro» Andreotti
Già, perché i processi ad Andreotti sono stati processi alla Prima Repubblica e alla Democrazia cristiana: proprio perché lui era l'emblema del potere, quei processi per mafia non si potevano fare che a lui. Contro chiunque altro sarebbero apparsi pretestuosi e vuoti. Ma lui era il «Male», no?
O forse no. Pochi sanno che l'inossidabile Giulio Andreotti quando a Palermo combatteva per dimostrare di non essere mafioso, a Roma si faceva curare un tumore uscito fuori dopo la messa in stato d'accusa: tanto insensibile dunque non era. E lo raccontano facilmente i suoi figli e nipoti, che descrivono un Andreotti tutto diverso da quello mefistofelico cui siamo abituati. Padre e nonno affettuosissimo – per i piccoli di famiglia comperava Puffi in tutti i viaggi che faceva –, marito legato da delicato amore alla compagna di una vita.
Ci capitò di vederlo mentre fermava l'imponente corteo che lo accompagnava per i vicoli di Sana'a, nello Yemen, di fronte a una bancarella di chincaglierie, adocchiare una collanina da pochi dollari e porgerla all'amata signora Livia, e giureremmo persino di avergli visto brillare gli occhi, per quanto la cosa possa sembrare inverosimile.
E poi, avendolo tante volte osservato da lontano mentre pregava nella chiesa del Gesù e o dei Fiorentini per la Messa quotidiana, possiamo dire francamente che non ci è mai sembrato che recitasse una parte.
Su Andreotti giudicherà la storia, quando sarà passato del tempo, quando avremo le carte, quando si aprirà il suo celebre archivio (in gran parte donato all'Istituto Sturzo). Valuteremo bene e male, cercheremo di capire le tante ragioni di decenni di vita pubblica e segreta del nostro Paese passate per questo cattolico tutto dedicato alla politica. Ma di una cosa siamo più che certi: Andreotti ha saputo rappresentare il suo personaggio come solo i grandi sanno fare. E, guardandoci intorno, lo diciamo con una certa nostalgia. n
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