Forse alla fine ci troveremo a ringraziare il “pasticcio” Parolario. Nel sottolineare il sostanziale errore del Comune di Como (per ricollocare la “grande mostra” di Villa Olmo non ha trovato di meglio che “sfrattare” la rassegna dei libri), ci siamo ritrovati a parlare, per diversi giorni, di cultura.
Un lusso che non ci concedevamo da tempo e che sembrava impensabile in giorni dalle esigenze più dure e concrete: crisi, licenziamenti, cassa integrazione.
Invece, prima l’allarme suscitato dalla possibile cancellazione di Parolario, poi le parole pronunciate dal vescovo Diego Coletti ieri al teatro Sociale ci hanno fatto capire esattamente, per parafrasare Raymond Carver, di che cosa parliamo quando parliamo di cultura.
«Occuparsi di cultura» ha detto il vescovo, «non è un’evasione, ma prendere atto dei problemi e analizzarli scoprendo le radici». Un modo, ha aggiunto, per arrivare al «perché delle cose senza fermarsi al come».
L’incontro voluto da Coletti con il mondo della cultura cittadina è dunque l’occasione migliore per ricordare come in tempo di crisi, e dunque di cambiamento, sia giocoforza per ogni comunità rimettere tutto in discussione, trovare nuove energie, individuare soluzioni ai tanti problemi e ridiscutere le fondamenta stesse dell’edificio economico e sociale. Come lui stesso ha detto: un momento per chiedersi “perché” e non solo “come”.
Al di là del piccolo/grande terremoto che ha coinvolto Parolario, è sempre più evidente che buona parte del futuro di Como si gioca proprio sul terreno culturale.
Quante parole sono state pronunciate sulla vocazione turistica di Como, quanti articoli in proposito questo giornale ha scritto? Un numero incalcolabile. Non basta: quante volte abbiamo discusso della presenza universitaria in città, quanti progetti per il campus abbiamo esaminato, quante pagine abbiamo dedicato agli studi portati a compimento proprio qui, accanto a noi? Ancora una volta la risposta non può che guardare ai grandi numeri.
Tutto questo sta a indicare una sola cosa: che le speranze di Como sono riposte nell’intelligenza. L’intelligenza necessaria a promuovere un territorio, come dovrebbe fare chi si occupa di turismo, e l’intelligenza insita nel concetto stesso di educazione universitaria che, nella sua scia, porta avanguardie del pensiero quali la ricerca.
Parlare di cultura, insomma, significa parlare di economia, lavoro, educazione e, in ultima analisi, civiltà.
Archiviamo pure episodi come quello che ha coinvolto Parolario sotto la voce “incidenti di percorso”, a patto che non si dimentichi il traguardo finale, l’obiettivo comune: fare della cultura la base di una necessaria e auspicabile rifondazione cittadina.
Questo si ottiene lavorando su nuovi progetti e valorizzando le eccellenze già esistenti. Si può fare nel momento in cui c’è collaborazione, apertura mentale, disponibilità al confronto. In altre parole: quando c’è dialogo. Il quale, guarda un po’, è anch’esso cultura.
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