Mentre i nostri statisti offrono ripetute prove di spessore culturale, aderenza ai principi di etica e coerenza, che da sempre contraddistinguono la bella politica, e preclara acutezza del dibattito istituzionale, nelle ultime ore assurto alla dignità di un cinepanettone dei Vanzina, il flusso sommerso della vita reale si dirige verso ben altri lidi.
L’ennesimo episodio di intimidazione contro un professore, l’ultimo segnalato dalle cronache è quello di Lucca, ma ormai la storiografia è sovrabbondante, ha aperto un dibattito a tratti un po’ frusto e stucchevole – “è tutta colpa della scuola”, “è tutta colpa delle famiglie”, “è tutta colpa di quelli là”, sintesi che mette sempre tutti d’accordo – ma anche con qualche riflessione di grande interesse. Michele Serra, ad esempio, nella sua rubrica su “Repubblica” ha sostenuto che la maggioranza degli episodi si manifesta negli istituti tecnici e professionali e, quindi, l’insubordinazione nei confronti dell’autorità costituita è direttamente proporzionale al ceto di provenienza. Dimostrazione di una struttura ancora fortemente classista della nostra società - chi ha fatto il liceo manda i figli al liceo, chi ha fatto le scuole basse li manda alle scuole basse - nella quale il popolo è più debole della borghesia e cerca attraverso la violenza di mascherare la propria fragilità economica, sociale, culturale ed esistenziale. Violenza anarcoide, quindi. Violenza ribellista, disperata, cieca. Proprio in questo fattore, Serra coglie la menzogna mediatica del populismo, un’operazione consolatoria che punta a non far prendere coscienza ai ceti popolari della propria subalternità, illudendoli del fatto che essere incolti e aggressivi non sia un deficit da superare, ma invece un titolo di vanto. Insomma, la gente comune contro la casta.
Riflessione di notevole originalità e di grandissimo interesse, che mette le mani nel piatto fanghiglioso di un cortocircuito sociale che prevede, dispone e impone la sparizione di ogni ruolo di intermediazione sociale, perché chiunque abbia un ruolo di direzione è di per sé un nemico della gente, ed esprime una cultura dell’educazione delle masse che viene dalla storia più feconda della sinistra italiana. In particolare, di quella del partito comunista. Ma è una riflessione sbagliata. Sbagliata concettualmente. Perché impernia tutto il ragionamento - ripetiamo, di grande spessore - sulla divaricazione, sulla biforcazione, sull’alterità tra “borghesia” e “popolo”. Cioè sui capisaldi culturali, sociologici e metaforici di tutta la cultura del Novecento politico. Però questa biforcazione non esiste più. E’ finita con la morte delle ideologie, dei blocchi contrapposti, degli ideali alternativi di sistema, dei partiti strutturati. Non esiste più alcun popolo. Non esiste più alcuna borghesia. Esiste solo un enorme, omnicomprensivo, informe, gassoso, ribollente, deideologizzato e deresponsabilizzato ceto medio, che si muove su un unico binario, un’unica pulsione, un’unica visione del mondo. E che ha perso qualsiasi senso del ruolo sociale e civico che avevano, appunto, la borghesia e il popolo.
Si dirà, ma ci sono quelli che vivono da signori e hanno la casa di proprietà in centro e quelli che non hanno una lira e fanno i salti tripli per arrivare alla fine del mese. Certo che è così. Ma questa è una “semplice” differenza economica, non culturale. La cosa devastante della violenza verbale e fisica che monta in tutti i luoghi comunitari, e quindi anche nella scuola - dove, per ovvi motivi, fa più scandalo - è la sparizione di ogni rispetto verso chi incarna un’autorità, un ruolo direttivo, una competenza, un potere decisionale. Quello è di per sé un ladro, un farabutto, un privilegiato. Nessuno vale di più, perché ognuno vale uno. Non è così? E questo lo pensano i poveri, certo, ma anche i ricchi: vogliamo parlare dei bullismi, degli analfabetismi e dei cafonismi perpetrati da certi studenti delle famiglie bene e da certi quaquaraquà a spasso con macchinone, motoroni e motoscafoni?
Non è questione di soldi, né di umili vessati. La frustrazione, il livore, la rabbia repressa, la coscienza di essere fuori dalla vorticosa rivoluzione tecnologica digitale che spazza via posti di lavoro fino a pochi anni fa sacri, nobili e inviolabili - banche, assicurazioni, grande distribuzione, editoria eccetera - e soprattutto l’angoscia della perdita di ruolo, travolge tutto il ceto medio, che si espande senza soluzione di continuità da chi ha un reddito da duecentomila euro l’anno a chi lo ha da soli diecimila. Sono tutti - siamo tutti - sullo stesso barcone di profughi sballottati tra le onde di un oceano in larga parte incomprensibile che ti porta verso una Lampedusa metafora di un destino da carne da macello. E, quindi, tutto questo è colpa di lorsignori, di quelli che comandano, di quelli che decidono, di quelli che insegnano. Spurga fuori dagli adulti questo livore anti tutto, questo azzeramento di ogni senso di rispetto delle regole, delle competenze, delle gerarchie e passa dritto filato ai propri figli. Ed è il frutto di anni e anni di pubblicistica gentista, populista, giustizialista, straccionista, manettarista: grande, vergognosa scorciatoia demagogica alla comprensione dell’enorme complessità di una società postmoderna.
Non c’entrano più nulla il popolo con la sua falce e la borghesia con il suo samovàr per il tè delle cinque, categorie storiche di un mondo che fu, schifoso e tragico, ma più chiaro. E più serio. Qui siamo alla fine di quelle categorie e alla nascita di una sola, grande, immensa, omnicomprensiva plebaglia culturale che tutto ingloba, tutto sminuzza, tutto trangugia e tutto trasforma in pattume da social. Non è un caso che questo degrado alligni e tracimi nelle scuole. Non è un caso ciò che di grottesco, di penoso, di avvilente sta avvenendo in queste ore nei palazzi del potere. Nulla è un caso, in una civiltà allo sbando e nella sua inimitabile e spassosissima repubblica delle banane.
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