Un paese che non sa fare i conti con il proprio passato non può essere capace di raccontarlo.
Una delle polemiche più irritanti, stucchevoli e perbeniste di questa prima estate di pax renziana riguarda la televisione. Anzi, le serie televisive. In particolare, quelle prodotte da Sky negli ultimi anni – “Romanzo criminale” e il recente “Gomorra” – e quella già programmata per il prossimo autunno sul racconto dell’era di Tangentopoli. E, naturalmente, dopo il grande successo della storia della banda della Magliana e quello addirittura clamoroso delle vicende delle famiglie camorriste di Scampia e dintorni si è aperto il dibattito. Nel più pedagogico e ammorbante stile nannimorettiano.
Ma è giusto, è consono, è accettabile che in televisione vengano proposte serie che rappresentano la violenza, la corruzione, il sangue, insomma, il Male, sotto una veste eroica e quasi mitologica? Quali danni stiamo recando alla formazione culturale dei nostri ragazzi che finiscono con l’identificarsi con il Libanese o il Freddo tanto quanto con Genny Savastano, Donna Imma o Ciro l’Immortale, il killer rivisitazione di Iago in salsa malavitosa? Ma non esistono soggetti più positivi, più costruttivi, più capaci di offrire storie esemplari dalle quali zampillino preti in bicicletta, marescialli un po’ burberi ma dal cuore grande così, benefattori dell’umanità, infermierine dedite anima e corpo a chi ha più bisogno, innamorate senza macchia, emotive anonime, genietti della fisica o della cibernetica, pescatori di mitili o trasportatori di lupini che però l’importante è essere felici e tutto quel contorno di caprette che pendono dalle colline, cittadelle di provincia dove non succede mai niente ma dove ancora esiste, beati loro, il senso della comunità e tutto il resto della retorica prodotta dalla nostra culturetta liceale che viene trasposta sui canali generalisti delle nostre inguardabili televisioni ancien régime?
La questione, di per sé, fa ridere. E fa ridere anche l’intento pedagogico in quanto tale. La pedagogia – nella sua accezione più bacchettona e massificante - è la morte dell’arte, del talento, della creatività. La cultura, se vogliamo attenerci alla profonda lezione crociana, non può avere limiti di soggetto e vive dentro una condizione totalmente autonoma che nulla ha a che vedere con vincoli, steccati o opportunità politiche o moralisticheggianti. “Romanzo criminale” e “Gomorra” sono due prodotti spettacolari e di grandissima efficacia narrativa, consacrati da un’audience record per una tv a pagamento, perché hanno colto l’indicazione più feconda della strepitosa produzione televisiva americana, imperniata su ambiziosissime sceneggiature, interpretazioni di grande scavo psicologico, budget rilevanti e soprattutto, da una parte, sull’acutezza di cogliere le vene sottili che si diramano nella società, nel suo immaginario collettivo per sintetizzarle in prodotti nei quali ci si possa riconoscere, dall’altra sulla capacità di saper fare pienamente i conti con la propria storia. E quest’ultimo aspetto - fondamentale – non riguarda solo il mondo televisivo, ma anche quello cinematografico, narrativo e dell’arte in genere.
Si pensi quale profondissimo lavoro di analisi e di scavo è stato operato per rielaborare il lutto della tragedia militare e civile del Vietnam, che ha prodotto alcuni capolavori della storia del cinema – “Il cacciatore” su tutti –, così come per raccontare l’epopea del west, della mafia o degli scandali legati all’ambiente della politica. Bene, anche l’Italia ha avuto i suoi Vietnam: terrorismo, mafia, Tangentopoli. Eppure non è mai riuscita a dare dimensione culturale, letteraria e, tutto sommato, neppure storiografica a questi nodi pulsanti del passato del nostro paese. Perché? Ma perché il dibattito è sempre rimasto vittima delle pastoie della polemica politica politicante, dei più biechi interessi di parte, dei cambi di casacca, del peggior autoassolvimento dalle proprie responsabilità oppure della peggior demagogia stracciona. Quale grande film ha raccontato e metaforizzato quelle vicende? Quale grande romanzo corale? Quale serie o programma tivù? Dov’è il nostro Kubrick? Il nostro Balzac o Philip Roth? Il nostro canale Hbo? Se togliamo la splendida inchiesta televisiva “La notte della Repubblica” di Sergio Zavoli sugli anni del terrorismo (con la memorabile intervista a Mario Moretti, forse la più intensa della storia della Rai) e qualche piccolo spunto, qualche interessante velleità ne “La Piovra” o “La meglio gioventù” e poco altro ancora, mai un vasto scenario, mai una ricostruzione spietata, impietosa ma veramente bipartisan delle nostre sciagure, mai una sceneggiatura all’altezza della cronaca. Solo polemiche tra destra e sinistra, tra infami e rivoluzionari e tutti lì a guardarsi l’ombelico come ballerini di twerking e a fare sedute di autocoscienza e a dirsi e ridirsi come siamo invecchiati male e quanto erano formidabili quegli anni e romanzetti piccini picciò e pensierini da quattro soldi e killeraggi a cadavere freddo e lo stellone nazionale e albertosordi e l’Italietta dell’otto settembre che gira sempre la faccia dall’altra parte…
Ecco, “Romanzo criminale” e “Gomorra” hanno avuto il coraggio e l’acume di prendere un pezzo di storia d’Italia e di guardarci finalmente dentro, senza nascondere o edulcorare e senza scendere a compromessi con il politicamente corretto. Con un approccio più pasoliniano e a tratti malinconico il primo, che racconta anche una storia di amicizia, più claustrofobico e totalmente immerso nell’abisso il secondo. Magnifici, come si spera (nonostante la presenza nel cast del monoespressivo Stefano Accorsi, uno dei più clamorosi bluff della cinematografia italiana) possano essere le dieci puntate dedicate a Manipulite.
Il male fa parte della vita di un uomo, le tragedie di quella di un paese: chi le nasconde o le accolla sulle spalle degli altri è destinato a fallire. E non soltanto davanti all’Auditel.
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