Questa gagliarda e bella storia dei lucchetti agganciati all’arrugginita rete sulla riva cittadina per chiedere che il lago sia riconsegnato ai suoi legittimi proprietari comaschi, mi fa ricordare che questa stupenda pennellata di azzurro intenso tra il verde delle montagne lariane è un po’ anche dei “brianzoeu”. Anche il popolo delle contrade brianzole ama parlare del “nostro lago”, quando pensano a Como e alle sue sponde soprattutto quando il lago vengono a vederlo veramente. È molto vecchia la bella tradizione, forse andata purtroppo forse un po’ fiaccandosi in questi ultimi anni, di arrivare a Como, dall’Alta Brianza, dal Canturino, la domenica per fare una passeggiata in città. Questi turisti alla buona, “ante litteram”, amavano dire “’ndem a Comm a vedè el lach”. Erano gli anni prima e subito dopo l’ultima guerra quando era forte questa consuetudine, che qualcuno, un po’ avanti con i tempi, forse la chiamava “moda”, di trascorrere qualche ora del pomeriggio del dì di festa nel centro delle città comasca: lungo le sue vie piene di negozi e poi, a conclusione dell’ameno passatempo, ecco la passeggiata sul lungo lago. Nei ruggenti anni subito dopo l’ultima guerra, quando cominciava a irrobustirsi tra la gente un bel fermento di tante speranze e di entusiasmi intensi, una delle “follie” che mio padre, pure lui pieno di fervori ottimistici, mi regalava, era quella di portarmi al “Sinigaglia”, la domenica pomeriggio a vedere il grande Como, tutto azzurro e tutto italiano. Quando tronavamo dallo stadio per arrivare in piazza e salire sul tram numero Cinque, direzione Erba, percorrevamo lentamente (per godercelo appieno) il doppio viale alberato lungo la sponda. Il papà allora cominciava a fantasticare, diceva che quelle file di alberi diventavano per lui il “Sunset boulevar”, protagonista del celebre film di Billy Wilder in auge in quegli anni. Per lui Como e il suo lago erano diventati addirittura la mitica Los Angeles: davvero una bella fantasia, un grande exploit immaginario, per un uomo del tutto normale come mio padre. Il “nostro lago” faceva anche questi miracoli.
Erano ancora gli anni del dopoguerra quando il vecchio tram, la domenica pomeriggio portava a Como, frotte di ragazzotti brianzoli. Piombavano in città e sciamavano per le strade del centro. I cittadini locali li individuavano subito perché i loro comportamenti erano un po’ zotici, grossolani, vocianti. Andavano al cinema, in qualche bar, qualche volta riuscivano a tirarsi dietro qualche ragazza coraggiosa e tanto intraprendente da riuscire svignarsela dall’oratorio. E allora doveva andare in Corso Vittorio Emanuele, la “vasca” e nelle strade vicine a guardare i negozi di abbigliamento che allora non si chiamavano ancora “boutique”. Qualche manigoldo si fermava invece dalla “Lucia”, o al “Dollaro” (i rigori della “Legge Merlin” non si erano ancora fatti vivi). Poi per tutti la dolce conclusione della colorita e gaia escursione cittadina era sul lungolago: a mangiare il gelato dal “Ceccato”, o a bere la cioccolata dal “Monti”, “a vedè ul lacch”, a guardare i battelli, i motoscafi, magari immaginare qualche bella gita verso Villa d’Este, o ancora più in su: a Bellagio. Ma ormai era tardi: il tram era là in piazza sui binari del capolinea che aspettava.
Qualcuno certamente ora arriccerà il naso e dirà: «Altri tempi, altri gusti. Allora c’era ancora il piacere delle cose semplici, adesso, vuoi mettere….!?
«Vuoi mettere che cosa? Il lago ha ancora il suo fascino».
So di gente dell’Alta Brianza, magari già un po’ in là negli anni, che ama ancora scendere a Como, sopportando qualche coda lungo la “Cappelletta” e la “Madruzza” per arrivare in piazza Cavour a vedere il lago. In questi ultimi anni tante persone si sono rivolte a me per dirmi di scrivere un “qualche cosa di cattivo” su questa storia delle paratie che ha portato via la vista del lago. Penso proprio, pieno di fiducia, che qualcuna di queste persone abbia preso la palla al balzo e giunga sul lungolago ad agganciare il suo bel lucchetto alla arrugginita rete del cantiere.
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