Il dato più eclatante della tornata amministrativa – e non bisogna fare indigestione di pane e percentuali con Vespa e Mentana per capirlo – è l’impressionante numero di elettori che ha deciso di non andare alle urne. A quanti osservano che, tutto sommato, ci stiamo avvicinando alle percentuali anglosassoni dove il “diritto di non esercitare il dovere” trionfa da decenni, si potrebbe rispondere a ragion veduta che a queste latitudini le elezioni comunali rappresentano (o rappresentavano?) l’ultimo baluardo contro la supposta deriva menefreghista. Che sarebbe poi il preludio, stando a certe teorie, dell’inevitabile trionfo dei qualunquismi più variegati.
Le percentuali di affluenza, comunque, sono lì da vedere con un 52,14 per cento medio nei 18 comuni chiamati al voto. E forse è il momento di chiedersi il perché di questa deriva. Se si volesse fare un ragionamento che vada oltre il manifesto della banalità applicata alla politica – “i politici che rubano, che tanto sono tutti uguali e che sicuramente fanno poco persino la doccia” – si potrebbe ribaltare l’approccio e ritornare a una vecchia e mai smentita teoria.
Ovvero che quando si tratta di andare a scegliere un sindaco ci vogliono le persone giuste al momento giusto e nel posto giusto. Dove per “giuste”, ovviamente, l’ideologia centra poco e diventano importanti una serie di variabili estranee alla politica politicante. L’impressione è che l’elettore non accetti più a scatola chiusa la “marca” del prodotto messo sullo scaffale della politica dal partito di riferimento e voglia saggiarne le qualità. A costo da rifiutare quello che, in altri tempi, si sarebbe accettato senza fiatare e al massimo con una montanielliana “turata di naso”.
C’è anche qualche indizio a sostegno di questa tesi e che, nel voto espresso nei comuni più grandi come Cantù ed Erba, è venuta chiaramente alla luce. Il Partito Democratico, per esempio, non ha inciso nella scelta del futuro sindaco: a Cantù ha ottenuto il 10 per cento e a Erba neppure è arrivato in doppia cifra. Quasi a sottolineare che, al di là dell’indubbia preparazione, i due candidati non erano quelli “giusti”, forse superati da un mondo che va a mille all’ora o forse troppo schiacciati attorno a un modello di politica difficilmente esportabile in una piccola periferia. Per fare un esempio, è andato meglio,rispetto alla macchina da guerra con il timbro renziano, il candidato erbese di Democrazia Partecipata Doriano Torchio, che difficilmente sarà in corsa per la copertina di Vanity Fair. Ma che evidentemente piace per il suo modo giusto di porsi, lontano anni luce dal già sentito e dal già promesso. La stessa netta affermazione di Edgardo Arosio di Cantù- che per un soffio ha rischiato di risparmiarsi quindici giorni di ballottaggio - si può leggere in quest’ottica. Al pari, probabilmente, del braccio di ferro tra Claudio Ghislanzoni e Veronica Airoldi che animeranno il ballottaggio di Erba. Entrambi provenienti dalla stessa famiglia politica hanno finito per raccogliere più consensi di quelli identificabili nei loro movimenti.
E, ancora, l’elezione del medico in pensione Giovanni Pagani di Appiano Gentile davanti a Luigi Caldi, il vice sindaco uscente ripudiato dai suoi e che ha corso da solo convinto - come ha raccontato alla nostra Manuela Clerici - «che non serve la laurea per piacere ai cittadini». E’ andato vicinissimo ad avere ragione mentre i suoi (ex) partiti di riferimento sono andati alla deriva.
Non fosse ancora sufficiente, si potrebbe infine buttare uno sguardo al Movimento 5 Stelle che a queste comunali comasche non guardava soltanto con l’obiettivo di fare esperienza. Il risultato è inferiore alle attese, segno che le candidature non sono atti notarili. E che in politica non sempre uno vale uno.
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