Enrico Letta ha tirato fuori le unghie con Berlino. «A certi ayatollah della Ue il rigore non basta mai» ha tuonato anticipando la linea che il ministro del Tesoro difenderà a Bruxelles: la legge di stabilità non si tocca perché ha tutti i requisiti necessari, l’Italia ha i conti in ordine.
In vista del Consiglio europeo di dicembre il premier inaugura la «strategia della crescita» a quanto pare di concerto con Parigi: di solo rigore si muore, dice, bisogna rivedere certe regole di stabilità e investire in sviluppo e lavoro.
Ha possibilità di successo? Lo dirà solo il tempo (le prime reazioni della Germania sono state a dir poco gelide), ma intanto l’assalto all’euroburocrazia consente a Letta di presentarsi con un’immagine diversa sul fronte interno.
Le tagliole parlamentari che attendono l’esecutivo sono numerose. La prima è l’imminente voto del Senato sulla decadenza di Silvio Berlusconi. Il discorso che l’ex premier intende tenere in aula potrebbe riservare molte sorprese: intanto ad esso si arriverà dopo una battaglia procedurale all’ultimo respiro di tutto il centrodestra. E questo rappresenterà un momento di riunificazione, sia pure formale, delle due anime del vecchio Pdl. Angelino Alfano ne coltiva l’implicito senso politico e ha bocciato qualsiasi ipotesi di affrettare il voto sulla legge di stabilità per rispettare la scadenza del 27 novembre: il che significa che la manovra dovrà slittare, creando qualche imbarazzo al governo.
Ma soprattutto Berlusconi sembra deciso a chiamare in causa tutto il sistema, dai partiti alle massime istituzioni, per un passaggio che ha pochi precedenti nelle democrazie occidentali: non a caso ha spiegato di temere di fare la fine della Timoshenko. Una drammatizzazione che certo non aiuta il clima nella maggioranza delle larghe intese. Senza contare che il Cavaliere potrebbe concludere il tutto anche con le proprie dimissioni prima del voto, il che comporterebbe l’ennesimo rinvio e il tanto temuto scrutinio segreto per accettarle o respingerle.
Il secondo scoglio per Letta sono le primarie del Pd. Il grande favorito, Matteo Renzi, parla già da segretario in pectore e avverte che i democratici non faranno da «donatori di sangue» per il governo. Il sindaco rottamatore aggiunge che, se vincerà, il giorno dopo «il governo dovrà fare le cose che dice il Pd» Il sottinteso di questo toni così ruvidi è che finora non lo abbia fatto.
Tutti sono sintomi di un malessere diffuso che ha già condotto alla scissione Pdl e Scelta civica e che sta aggredendo il Pd. Ciò spiega la preoccupazione, e anche l’amarezza, con cui il Quirinale sta seguendo l’evolversi della situazione, ben sapendo di essere rimasto l’ultimo baluardo a difesa di un governo che ci dovrebbe traghettare verso la ripresa. Contro questo baluardo si scaglia Beppe Grillo che ha preannunciato una mozione di sfiducia contro il viceministro allo Sviluppo e sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, raggiunto da un avviso di garanzia sul caso Crescent. Renzi, di cui De Luca è sostenitore, risponde che le dimissioni si chiedono a chi è condannato e non a chi è indagato. E preannuncia di pensare ad una gigantesca riforma della giustizia. Tema sul quale sarebbe possibile una convergenza con il centrodestra.
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