Nessuna marcia indietro, nonostante la levata di scudi bipartisan. Il governo Renzi ha varato per decreto legge la riforma delle banche popolari. Ancora non si capisce quali siano le ragioni vere che hanno portato in tempi brevissimi a stravolgere la fisionomia di un modello secolare. Il premier ha parlato di «necessità e urgenza» per «questioni italiane e internazionali» e di «grandi cambiamenti sotto il profilo della politica economica europea».
Le difficoltà di Mps e Carige restano sullo sfondo, anche se è vero che queste avranno bisogno probabilmente di soluzioni in tempi molto più rapidi rispetto ai 18 mesi dati alle banche popolari più grandi per trasformarsi in società per azioni.
Certo, si sa che non da oggi Banca d’Italia preme per un’evoluzione del sistema popolare verso le società di capitali. Ma guardando ai casi concreti e alle motivazioni ripetute in questi giorni, alcuni conti non tornano del tutto. Il problema è attirare i capitali degli investitori? Ci sono istituti che hanno ampiamente dimostrato di saperlo fare. Il problema è il rafforzamento patrimoniale? Vi sono banche popolari che hanno brillantemente superato gli esami europei. Il problema è dare più credito a famiglie e imprese? I dati, li ha ricordati nei giorni scorsi l’ex responsabile economico del Pd Stefano Fassina, dimostrano che le popolari in questi anni di crisi hanno dato più credito rispetto alla media del sistema. Resta dunque latente la domanda di fondo: perché? Visto anche che colossi cooperativi, come è stato rilevato più volte in questi giorni, operano oltre confine e non sono messi in discussione.
Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha parlato di «scossa forte preservando però in alcuni casi una forma di governance che ha servito bene il Paese». È un riconoscimento che getta forse le premesse per la costruzione di un nuovo modello. Dalla riforma repentina, un colpo di mano che cancellava storie secolari nel giro di 24 ore, si è passati a un orizzonte temporale di 18 mesi che consentirà di costruire un percorso. «Gradualità ma indirizzo chiaro», ha detto ancora il ministro Padoan. Si tratterà di capire quali margini ci saranno per provare a tenere insieme lo spirito delle origini, che in molte città ha reso grandi le banche popolari e tutto un territorio, con l’evoluzione dei mercati. La sfida è aperta. Di positivo per ora si può registrare l’evoluzione del testo del decreto. Dai primi due commi di quattro righe che abrogavano tout court l’articolo 30 del Testo unico bancario, e con questo il voto capitario e i limiti al possesso azionario, si è passati a una stesura più articolata: pare che il consigliere economico di Renzi, Yoram Gutgeld, vi abbia lavorato fino a tarda ora lunedì sera. Il risultato è che l’abrogazione sic et simpliciter dell’articolo 30 è sparita. Ed è vero che il decreto dà l’indicazione chiara della trasformazione in società per azioni: le banche popolari non potranno avere un attivo superiore agli 8 miliardi e chi supererà questo tetto dovrà cambiare veste giuridica. Ma è anche vero che, forse, proprio nella sopravvivenza dell’articolo 30 del Tub, e quindi nel permanere dei limiti al possesso azionario, potrebbero esserci le pieghe per costruire il profilo di moderne public company ad azionariato diffuso. Nello stesso articolo 30, fra l’altro, resterebbe il voto capitario, anche se poi in altra sede il decreto di ieri esclude per le popolari l’applicazione dell’articolo 2538 del Codice civile che sancisce lo stesso principio. C’è dunque ancora molto da fare. Il percorso verso un nuovo modello è appena iniziato.
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