Mi sono concesso di prendere le distanze dall’orgia di applausi che hanno fatto seguito all’affrettato ed enigmatico decreto (per modelli, tempistica, motivazioni addotte) che ha imposto un intervento a gamba tesa nel mondo delle banche popolari. In verità c’è stato un commento serio, meditato ed equilibrato, che è quello di Marco Onado (Il Sole 24 Ore del 21 gennaio) intitolato: “Le Popolari pagano l’incapacità di riformarsi”. Ma la grande maggioranza degli altri interventi sono stati superficiali, ideologici, demagogici.
Le banche popolari, con la loro caratteristica «una testa, un voto», sono, da oltre un secolo, una delle colonne portanti dell’economia europea.
Oggi in Europa si stima che operino 3.700 banche di credito cooperativo che danno lavoro a 250 mila persone e che contano su circa 215 milioni di clienti. L’associazione europea (European Association of Cooperative Banks) stima che questa categoria di banche rappresenti circa il 20% del mercato bancario retail. Dietro a queste cifre vi sono realtà molto diverse.
In Francia, il settore, caratterizzato da tre colossi come Crédit Agricole, BpC e Crédit Mutuel (strutturate in modo tale da non essere scalabile), ha in mano il 45% del mercato. In altri paesi la struttura è più facile. Da noi è stata molto indebolita ma è ancora significativa.
Non è un’anomalia italiana
Dunque incominciamo a dire che non si tratta di una anomalia italiana. Tanto è vero che la Commissione Europea ha archiviato la procedura di infrazione contro l’Italia, avviata nel 2003 con riferimento alla normativa applicabile alle Banche Cooperative Italiane. La seconda cosa da dire è che se esaminiamo le classifiche 2013 delle banche più equilibrate, solide, redditizie, produttive, troviamo bene collocate in classifica le principali banche popolari italiane, quasi tutte quelle colpite dall’affrettato decreto Renzi-Padoan.
La vicinanza alle imprese locali
La terza cosa da dire è che le banche popolari di territorio sono state, in questi anni durissimi, tra quelle più vicine alle imprese, più capaci di seguirle ed accompagnarle. E questo quando le maggiori banche, anche come effetto di un frettoloso e pasticciato processo di aggregazione, erano allo sbando operativo, per fortuna, ora, in gran parte superato.
La quarta cosa da dire è che le ragioni addotte per giustificare questo affrettato decreto sono alcune inconsistenti, altre preoccupanti. La più inconsistente la troviamo in bocca al presidente del Consiglio: «Abbiamo troppi banchieri e facciamo poco credito». Come se è da questo decreto che dovremmo attenderci più credito.
Quelle preoccupanti le troviamo in bocca al ministro Padoan, secondo il quale l’intervento favorirà «un processo di consolidamento di mercato dopo la crisi».
Il rapporto Ferguson
Si continua così ad alimentare la visione che in materia bancaria bisogna solo favorire le grosse dimensioni e le aggregazioni, senza dare alcun peso a tanti altri fattori necessari perché una banca ed un sistema bancario siano solidi e sani.
Dunque la crisi del 2008 che è stata soprattutto crisi delle banche di grandi dimensioni non ha insegnato niente? Dunque dobbiamo ripercorrere, acriticamente, le stesse strade che ci hanno portato dove ci hanno portato? Ma c’è qualcuno che si vuole decidere a leggere il rapporto Ferguson (le grandi aggregazioni e dimensioni non portano di solito ad economie di scala ma solo alzano il “livello di moral hazard” e portano ad una restrizione del credito per le imprese minori).
La quinta cosa da dire è che mancando spiegazioni credibili ed assennate per un provvedimento così brusco, affrettato, ed impropriamente chiamato riforma, su alcune banche popolari, non si può evitare la domanda: perché? Perché con questa tempistica? Perché con queste modalità? Perché con questo strumento? Perché complicare ulteriormente il quadro con tutto quello che il governo ed il parlamento hanno in pentola?
Ragioni e pressioni impellenti
È chiaro che un provvedimento di questo tipo, in questo modo ha dietro delle ragioni e delle pressioni impellenti. Vorremmo conoscerle.
Si dice che in Parlamento il mondo delle popolari si opporrà e le lobby si metteranno in pista. Più che legittimo, doveroso. Anche perché la vera lobby si è già messa in pista.
È la grande lobby delle cupole finanziarie che governano il mondo e per le quali qualunque istituzione che voglia conservare un barlume di democrazia economica è fumo negli occhi e va stritolato. Per permettere loro di trasformare ogni cosa in “capital gain” l’unico metro di misura che conoscono e che è il loro idolo. Ed è un grande dolore vedere che anche il ministro Padoan, che ho sempre seguito e stimato, è asservito alla religione del “capital gain” e delle grandi dimensioni fini a se stesse e come unico metro di misura, così come è un dolore vedere tra i protagonisti di questo pericoloso modo di pensare, persone di valore, che si definiscono anche allievi di Federico Caffè, il grande economista che contro queste tendenze distruttive ha sempre cercato, invano, di battersi.
Questo non vuol dire che non siano necessari interventi, anche severi, su quelle Popolari che fanno un uso disinvolto del voto capitario. È il caso in particolare della Bpm dove un piccolo gruppo di soci-dipendenti mantiene forme di controllo improprio sull’Assemblea, sul Consiglio e sul management.
Ma non si legifera su queste patologie. Queste si affrontano con interventi specifici e la Banca d’Italia ha sempre avuto i poteri per realizzarli e se non lo ha mai fatto, con la determinazione necessaria, è stato per pusillanimità.
Ma ci sono anche interventi strutturali e istituzionali da fare nel quadro di una vera riforma, soprattutto per le Popolari maggiori. Ad esempio è più che legittima la tesi che c’è un conflitto di fondo tra il voto capitario e la quotazione in Borsa.
È necessario anche introdurre regole che assicurino una adeguata rappresentanza nei consigli d’amministrazione degli investitori istituzionali ed un adeguato numero di consiglieri indipendenti.
È necessario ampliare il sistema delle deleghe. Se proprio si vuol concedere qualcosa anche alla demagogia si possono porre dei limiti ai mandati dei vertici, facendo quello che non si fece per Cuccia in Mediobanca che, se non erro, non era una Popolare.
Tutto questo e molto altro si deve fare per rammodernare l’istituto delle banche popolari e renderlo ancor più trasparente ed utile di quanto già non sia al sistema. Ma per far questo ci vuole una vera riforma e cioè una cosa ben diversa da questo frettoloso, illiberale, enigmatico decreto. Un decreto “ad personam” anche se non sappiamo, per ora, con certezza a favore di chi.
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