In una delle scene chiave di Palombella Rossa - film irrisolto e irritante, ma straordinariamente profetico – il deputato del Pci Michele Apicella, alter ego di Nanni Moretti, urla disperato che il partito comunista è “uguale ma diverso, diverso ma uguale!”. In quel passaggio intellettualistico e autoreferenziale, tipico della sua filmografia, c’è tutto il paradosso della sinistra italiana.
Il Pci era uguale agli altri partiti, cioè sinceramente democratico e occidentale, ma al contempo diverso perché figlio di una storia unica e inimitabile; diverso in quanto nutrito di cultura e ambizione palingenetica, però uguale perché capace di sano realismo e ben dentro la realtà effettuale italiana. Il paradosso dell’ircocervo. Che informa di sé anche la figura del suo leader, Enrico Berlinguer, tornato d’attualità grazie a un recente film-documentario di Walter Veltroni.
E’ bastata un’occhiata al parterre della presentazione romana per capire tutto: non mancava nessuno. Non un politico, un attore, un regista, un intellettuale, un opinionista. Nessuno. E i commenti a corredo dell’evento hanno dato il segno plastico di come in questo caso si sia andati ben oltre la commemorazione storica e politica di un protagonista della storia d’Italia, di uno spessore imparagonabile ai diseredati che oggi infestano larga parte del parlamento. Si sono abbandonati i lidi della memoria e dell’analisi per infilarsi dentro uno dei più consueti canovacci della tradizione italiana. La santificazione. La mummificazione. L’imbalsamazione retorica e aprioristica. Il dogma. La retorica dell’uomo indimenticabile, che quando c’era lui sì che le cose andavano bene. Il “regime” culturale. Perché oggi si può parlare male del Papa, ma non di Berlinguer, questa è la verità.
Quando sono tutti d’accordo, c’è sempre qualcosa che non va. Soprattutto in Italia dove, come noto a chiunque guardi con un minimo di disincanto le cronache, il mainstream culturale, l’immaginario collettivo è più simile a quello dei pecoroni che si muovono in branco piuttosto che a quello dell’animale solitario che pensa in modo autonomo. Il branco vive di luoghi comuni, di certezze assodate e inscalfibili, di visioni idilliche, irrealistiche e manichee - i buoni buoni di qui, i cattivi cattivi di là - di brand consolidati a prescindere, di storia vista per assiomi e fuori dal suo contesto palpitante di errori e tragedie.
Beh, nella vita reale non funziona così. Lo stesso Moretti lo aveva colto tanti anni fa – Palobella Rossa anticipa di pochi mesi la caduta del Muro – e lì c’è già tutta la coscienza del vicolo cieco, delle contraddizioni insanabili in cui si era infilato non solo il Pci, ma tutta la cultura che gli aveva dato linfa per più di mezzo secolo. E Berlinguer è la metafora di quella contraddizione. Documentata. Storicizzata. Stridente. Indiscutibile. E il continuo richiamo alla moralità e alla limpidezza cristallina che viene esibito dai suoi troppi esegeti è disarmante e spesso pure strumentale. La moralità è un valore prepolitico, ci mancherebbe altro che un esponente delle istituzioni fosse pure un ladro. È vero, con quel che si è visto e si vede ogni giorno è merce rarissima, ovvio, ma non si può valutare un leader solo per l’onestà perché così facendo si finisce dritti filati nei gorghi del moralismo, della superiorità antropologica, della demagogia sciagurata del “partito degli onesti”, dei fervorini perbenisti di cui il presidente delle Camera è maestro senza eguali. Certo, tanti socialisti e democristiani rubavano per sé, mentre tanti comunisti solo per il partito – che la prima Repubblica abbia galleggiato su un’enorme finanziamento illecito è dato storico non discutibile – e se di sicuro è meno grave non è comunque titolo di cui menare gran vanto.
Quella politica lì e quel mondo lì è quello che ha prodotto questa politica e questo mondo qui. Quel mondo è stato costruito, in particolare dagli anni Settanta in poi – gli anni di Berlinguer - sulla continua dilatazione dello Stato, sul controllo della politica sull’economia, sul consociativismo, sulla burocrazia tuttologa e occhiuta, sulla tassocrazia, sull’espansione infinita della spesa e del debito, sul sospetto peloso nei confronti della libera iniziativa, sull’allargamento mostruoso dei poteri di veto e di vincolo di sindacati che invece che fare i sindacati facevano politica. Sulla demagogia ugualitaria e livellatrice che dal Sessantotto in poi ha azzerato la selezione meritocratica nelle scuole e nelle università, distruggendo il profilo economico, culturale e sociale dei professori, una volta simboli autorevoli dello Stato e oggi divisi tra martiri frustrati e lazzaroni sempre in pausa caffè. Sulle terrazzate radical chic ora irrise da Sorrentino, ma nel lontano 1980 con crudeltà ben più implacabile da Scola.
E soprattutto, sull’incomprensione genetica della modernità. Quando Craxi – bandito indifendibile, ma anche politico di razza – disse con disprezzo che non era possibile parlare con Berlinguer, perché “non aveva neanche la televisione a colori” è stato oggetto di ironie molto snob, ma almeno su quello aveva mille volte ragione. Qui non conta che sia stato un ladro, ma che aveva capito perfettamente il futuro, mentre il Pci e il suo segretario erano il passato. Passato remoto. Trapassato remoto. Se la sinistra nel 2014 è ancora in queste condizioni è perché negli anni Ottanta Berlinguer non ha avuto la coscienza, il coraggio o la visione di fare quello che Blair ha fatto in Inghilterra dieci anni dopo. Spaccare tutto e rifare la sinistra su basi nuove e occidentali che presupponevano non uno sbiadimento omeopatico a colpi di shatush riformatori del Pci, ma l’immediato pensionamento della cultura comunista.
Invece niente. Beatificazione. Idolatria. Reliquiario. Tutte cose che fanno bene alle comode certezze, malissimo non solo alla ricerca storica ma alla figura stessa di Berlinguer che, grande politico e uomo serio, meriterebbe un mausoleo meno conformista e più leale.
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